Dal catalogo al web semantico, problematiche e prospettive
[Nel corso dell’anno accademico 2021/2022, il Gramsci centre for the humanities ha preso parte a un progetto d’ateneo dell’Università degli studi della Repubblica di San Marino dal titolo Gli archivi politici sammarinesi: censimento, digitalizzazione, fruizione[1]Coordinato da Luca Gorgolini (Unirsm), da Michele Chiaruzzi (Unibo; Unirsm), e dal nostro direttore, Massimo Mastrogregori, il progetto si è avvalso della consulenza scientifica di un gruppo di … Continue reading.
L’esito finale di questo lavoro sarà la pubblicazione di una guida agli archivi censiti di personalità e partiti politici, arricchita di approfondimenti teorici, che si configurerà come un primo indispensabile strumento di accesso ai patrimoni presenti sul territorio della Repubblica; accanto a ciò, come Gramsci centre, abbiamo provato a ragionare sulla formulazione di una proposta di digitalizzazione del materiale individuato, che ne predisponga la fruizione e la più ampia valorizzazione[2]Il video mockup del portale è accessibile a questo link..
Nella nostra prospettiva, l’occasione è stata però preziosa anche per impostare un primo lavoro di studio generale sulle diverse possibilità e forme di riversamento, resa e fruizione dei documenti archivistici in ambiente digitale. L’attenzione a come la rivoluzione digitale sta cambiando le modalità di produzione, elaborazione, consumo della cultura e della conoscenza, nelle sue svariate declinazioni, è infatti una delle direttive che guidano il lavoro del nostro centro fin dalla sua fondazione.
Il primo frutto di questa riflessione saranno quattro uscite, curate da Andreas Iacarella, che si configurano come un tentativo di approfondire il dialogo e la riflessione su un tema che appare quanto mai urgente sollecitare. Siamo certi che il carattere tecnico e scientifico del discorso non possa essere eluso, e che dunque il dibattito dovrà essere sempre più portato in una dimensione di estrema interdisciplinarietà, che coinvolga tutti gli attori in causa: professionisti della comunicazione, del knowledge design, dell’informatica, specialisti dei beni culturali (archivisti, bibliotecari, curatori ecc.), nonché storici, storici dell’arte e tutte quelle categorie di studiosi che degli archivi rappresentano i tradizionali fruitori. I diversi saperi dovranno non solo parlarsi, ma intrecciarsi, ibridarsi, perdendo certamente qualcosa delle loro specificità, a vantaggio però di una più avanzata progettualità degli ambienti digitali archivistici, che possa farsi avanguardia nella costruzione della memoria comune delle collettività di riferimento. In quest’ottica, quanto vogliamo offrire non è che un piccolo contributo critico alla discussione, con la presentazione di alcuni problemi e questioni generali, nella speranza che ciò possa suscitare ulteriori riflessioni.
Sommario delle puntate:
1. I beni culturali in ambiente digitale: dal catalogo al web semantico, problematiche e prospettive
2. Archivi nella rete: strategie e modelli
a. Dall’inventario online alla digital library: esperienze a confronto
b. Costruire una narrazione: i percorsi della storia nel web
3. Gli archivi della politica sul web
a. Gli archivi politici italiani e la sfida di internet: un percorso accidentato
b. Lettere e spot: due casi riusciti di valorizzazione
c. Da Archivi del Novecento a 9centRo: esperienze di rete a confronto
4. Il caso Europeana e altre esperienze internazionali di condivisione della memoria]
A gennaio del 2023 è stata presentata, dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital Library, afferente al Ministero della cultura italiano, la versione 1.1 del Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022/2023. Si tratta del primo aggiornamento di un piano quinquennale (2022-2026) che ha l’ambizione di indirizzare e guidare il processo di trasformazione digitale del patrimonio afferente ai diversi istituti e luoghi della cultura in Italia[3]In accordo con il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 101) «sono istituti e luoghi della cultura i musei, le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi … Continue reading.
Siamo di fronte a una novità assoluta nel panorama nazionale, lo stesso Istituto centrale per la digitalizzazione è nato appena qualche anno fa, nel 2020; vale dunque la pena partire da questo progetto per mettere a fuoco alcuni dei problemi ricorrenti nei processi di digitalizzazione del patrimonio culturale.
Pianificare il digitale
L’informatizzazione della pubblica amministrazione è iniziata ufficialmente, in Italia, a partire dagli anni Novanta[4]Del 1993 è l’istituzione dell’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione (AIPA), da cui sarebbe derivata, nel 2012, l’Agenzia per l’Italia digitale (AgID), tutt’ora … Continue reading. In breve tempo, questo ha comportato, per quanto riguarda i beni culturali, uno sviluppo di cataloghi online e portali che si è fatto via via più consistente. Stando ai dati offerti dal Piano nazionale di digitalizzazione parliamo attualmente, soltanto per quanto concerne i sistemi informativi gestiti da istituti centrali del Ministero, di «oltre 37 milioni di descrizioni catalografiche a cui sono associate circa 26 milioni di immagini; questo patrimonio informativo è stato consultato da oltre 100 milioni di visitatori unici negli ultimi cinque anni»[5]Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital Library, Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022/2023, versione 1.1, Ministero della cultura, … Continue reading. Se a ciò si aggiunge quanto gestito a livello territoriale, regionale o privato e non confluito nelle banche dati nazionali, possiamo avere un’idea della vastità del contesto cui facciamo riferimento.
Emerge subito, in questa panoramica, quello che rischia di diventare un limite: ovvero l’estrema articolazione sia settoriale (archivi, biblioteche, musei, parchi archeologici ecc.) che territoriale dei contenuti. Una granularità che da un lato può «garantire più facilmente profondità scientifica», avendo a che fare con «contesti circoscritti e omogenei disciplinarmente»[6]Ibid., ma dall’altro mostra alcune serie debolezze. Nel Piano ne vengono individuate in particolare quattro, rispetto alle quali ci si propone di indirizzare le strategie di intervento:
- «scarsa sostenibilità nel tempo dovuta alla rapida obsolescenza di dati, applicativi e infrastrutture non pensati in termini di reti di soggetti interconnessi;
- impossibilità di sviluppare servizi digitali avanzati che si basino su un efficace scambio e interrelazione dei dati;
- limitata condivisione dei risultati (…), con conseguente aumento dei costi dovuti alla moltiplicazione degli strumenti tecnologici e metodologici in uso;
- scarsa possibilità di seguire gli utenti nelle diverse forme di fruizione del patrimonio culturale, che precedono e seguono la visita presso il luogo della cultura»[7]Ivi, p. 5..
Ci pare, attraverso questo esempio, di aver sollevato non poche questioni, rispetto alle quali proveremo nel corso delle puntate a offrire alcuni spunti di riflessione. In particolare, centrali appaiono: il paradigma dell’interoperabilità, con quanto ne consegue in termini sia tecnici, che scientifici; la necessità di un incremento del dibattito interdisciplinare sul tema della digitalizzazione, che coinvolga tutti gli attori in causa, sia da un punto di vista di professionalità che di istituzioni; l’approfondimento di un’ottica che tenga insieme il rigore disciplinare che viene da tradizioni consolidate con l’emerge di nuove esigenze comunicative e di un’utenza che si fa, in ambiente digitale, quanto mai variegata. Il nostro focus sarà, come detto, sugli archivi, ma alcune riflessioni preliminari appaiono utili.
Forme del Web
«Like all media revolutions, the first wave of the digital revolution looked backward as it moved forward. Just as early codices mirrored oratorical practices, print initially mirrored the practices of high medieval manuscript culture, and film mirrored the techniques of theater, the digital first wave replicated the world of scholarly communications that print gradually codified over the course of five centuries: a world where textuality was primary and visuality and sound were secondary (and subordinated to text), even as it vastly accelerated the search and retrieval of documents, enhanced access, and altered mental habits. Now it must shape a future in which the medium-specific features of digital technologies become its core and in which print is absorbed into new hybrid modes of communication»[8]J. Drucker, P. Lunefeld, T. Presner, J. Schnapp, The Digital Humanities Manifesto 2.0, 2009..
Queste considerazioni, di alcuni pionieri delle Digital Humanities (DH), appaiono particolarmente adatte per introdurre il discorso. Dalla loro prospettiva di ricercatori, il limite che gli autori individuavano nella rivoluzione digitale era l’uso che si era fatto dei nuovi strumenti: poggiando sull’enorme capacità di simulazione del computer, ci si era contentati di imitare il noto, senza sfruttare a pieno le potenzialità del nuovo contesto[9]J. Mussell, Doing and making. History as digital practice, in T. Weller (ed.), History in the Digital Age, Routledge, London and New York 2013, p. 80..
Potenzialità che si sono sviluppate e approfondite nel tempo, come ha ben evidenziato Francesca Tomasi: «da un approccio tipicamente documento-centrico del Web 1.0»[10]F. Tomasi, Organizzare la conoscenza: Digital Humanities e web semantico. Un percorso tra archivi, biblioteche e musei, Editrice Bibliografica, Milano 2022, p. 38., si è transitati per la fase intermedia del Web 2.0[11]Cfr. T. O’Reilly, What is Web 2.0. Design patterns and business models for the next generation of software, 2005., che ha introdotto il concetto di «democratizzazione del sapere, concentrando l’attenzione sull’idea di un ambiente collaborativo e partecipato»[12]F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., p. 38. (il crowdsourcing)[13]Nella definizione di Jeff Howe: «Crowdsourcing is the act of taking a job traditionally performed by a designated agent (usually an employee) and outsourcing it to an undefined, generally large … Continue reading. Per arrivare poi al cosiddetto Web 3.0, in cui l’attenzione è stata spostata «sul dato atomico, la risorsa qualificata attraverso un frammento identificato univocamente, e sulle relazioni tipizzate, ovvero semantiche»[14]F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., p. 38. . Seppure semplicistiche, queste etichette sono utili per avere un panorama delle potenzialità crescenti dello spazio digitale. Nel Web semantico, l’assunto teorico di partenza è che il dato vada dunque studiato «con la consapevolezza delle sue molteplici relazioni», elaborando «modelli concettuali, ovvero approcci astrattivi dell’osservazione dei dati, nella forma delle ontologie»[15]Ivi, p. 34.. Siamo all’interno del paradigma dei Linked Open Data (LOD), «che consente di frammentare le informazioni ai minimi termini e di ricomporle secondo logiche diverse», in un ambiente aperto in cui si ha la «possibilità di creare una rete di connessioni non gerarchiche potenzialmente espandibile all’infinito»[16]G. Michetti, “«Il mondo come puzzle»: i beni culturali nel web”, DigItalia, XV, 1 (2020), pp. 38-39.; l’architettura soggiacente, che accoglie i dati, è quella del grafo[17]F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., pp. 92-96., sulla quale torneremo brevemente più oltre.
Questioni di categorie
Risulta subito chiaro, da questi brevi cenni, come la questione non possa essere ridotta al piano tecnico. Il termine “digitalizzazione”, che troppo spesso nel discorso pubblico diventa sinonimo di semplice acquisizione in forma digitale di masse enormi di materiali analogici[18]Sull’illogicità di alcuni di questi progetti, cfr. N. Ordine, “Il paradosso dei manoscritti digitalizzati”, Corriere della sera, 28 maggio 2022., va esplorato nel suo reale spessore. La digitalizzazione dei beni culturali è, sempre, un processo che comporta «a radical transformation of material form and so takes place in an economy of loss and gain»[19]J. Mussell, Doing and making cit., p. 82.: i documenti digitali, anche quando sono riproduzione di un oggetto analogico, non sono semplici copie, ma strutture complesse e stratificate. «[E]ach type of digital medium is a digital medium in a specific way», scrive Niels Brügger, «each has its digitality»[20]N. Brügger, The archived web. Doing history in the digital age, MIT Press, Cambridge and London 2018, p. 17. L’autore distingue, per quanto riguarda le fonti storiche sul web, tra «digitized … Continue reading. Ed è questa diversa “digitalità” che occorre analizzare.
Come ha evidenziato Stefano Vitali sollecitando l’importanza di una critica delle fonti digitali, con i documenti digitali molte categorie consolidate sembrano vacillare. Innanzitutto è la stessa nozione di testo, come «entità chiusa e perfetta, con caratteri di coerenza e coesione»[21]S. Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Mondadori, Milano 2004, p. 150., che viene meno: la testualità assume, nella rete, un carattere decisamente più fluido. Questo comporta tutta una serie di problemi quando si vogliano determinare l’autenticità o l’affidabilità di un documento, o quando ci si ponga la questione della verificabilità delle fonti[22]Ivi, pp. 155-166.. I documenti digitali sono fluidi, sono fragili, e «non esistono come entità fisiche distinte dalla tecnologia e dal processo che li rende intellegibili»; cioè, «credo di vedere un oggetto, ma in realtà assisto a una performance»[23]Ivi, p. 140..
Questioni di pubblico
Ma con tutta evidenza le questioni sono anche di carattere più generale: l’offerta del patrimonio culturale, e archivistico in particolare, in un contesto di rete lo apre a una dimensione pubblica del tutto nuova. «Con l’avvento di Internet (…) il potenziale e, talvolta, l’effettivo pubblico degli archivi» hanno assunto «proporzioni di massa», divenendo «tipologicamente sempre meno caratterizzabili e animati da uno spettro di motivazioni, personali o professionali, quanto mai varie»[24]S. Vitali, La ricerca archivistica sul web, in R. Minuti (ed.), Il web e gli studi storici. Guida critica all’uso della rete, Carocci, Roma 2015, p. 63. È questo un tema sul quale hanno ragionato … Continue reading.
Nella dimensione fatta propria a partire dal cosiddetto Web 2.0, di crowdsourcing, cioè di libera interazione tra creatore e fruitore, di scambio e di creazione di contenuti collettivi, sembra venire meno la distinzione tra specialisti e profani, in favore dell’emersione di una sorta di “intelligenza collettiva”[25]Pratiche, servizi e strumenti del Web 2.0 non soltanto abbandonano la «rassurante structure linéaire de l’écriture traditionnelle des livres», ma s’interpongono «entre la construction … Continue reading.
Questi aspetti hanno sollecitato quella filosofia di pensiero che considera la «digitalizzazione un mezzo capace di realizzare di per sé una diffusione ampia, capillare e tendenzialmente universale del sapere», e che ha le proprie radici in quella impostazione ideologica che interpreta la rete come strumento di «liberazione umana e di democratizzazione dell’accesso all’informazione e alla conoscenza»[26]S. Vitali, Passato digitale cit., p. 113.. Ma i rischi di una tale visione sono evidenti.
Da un lato, come evidenziato da molti studiosi a proposito delle fonti del passato in rete, il rischio è che l’utente preferisca «fare da sé, raccontando la “sua” storia»[27]S. Noiret, “Storia pubblica digitale”, Zapruder. Storie in movimento, 36 (2015), p. 12.. «Everyone a Historian», come scriveva Roy Rosenzweig [28]Cfr. R. Rosenzweig, Everyone a Historian. Riflessione pubblicata dall’autore sul sito dedicato al volume The presence of the past. Popular uses of history in American life (Columbia UP, New York … Continue reading. Ma il venire meno nella rete dell’intermediazione dello storico, come delle altre figure professionali che consentono un accesso critico e consapevole ai documenti del passato, rischia con tutta evidenza di alimentare un discorso a forte caratterizzazione narcisistica: la «storia e la memoria che la rete trasmette, narrate e interpretate in parte da chiunque, permettono la riproduzione acritica e decontestualizzata della memoria individuale e comunitaria, ovvero dell’orizzonte “cieco” di ciascuno»[29]S. Noiret, “Storia pubblica digitale” cit., p. 15.. Un «localismo astratto» che è «incapace di leggere la complessità dei processi storici», e che può perfino alimentare narrazioni e «memorie collettive alternative alla storia “ufficiale” e rispolvera[re] – o inventa[re] di sana pianta – nuove “leggende nazionali”»[30]Ivi, pp. 15-16..
D’altro canto non possiamo negare il grande fascino esercitato dalla prospettiva di una memoria storica diffusa che possa realmente costruirsi come prodotto collettivo, attraverso piattaforme e portali pensati ad hoc; ma in quest’ottica il ruolo dei professionisti della memoria (storici, archivisti ecc.) «devenait encore plus important pour filtrer, organiser, interpréter, reprendre un rôle d’intermédiaire face à cette activité nouvelle du grand public»[31]S. Noiret, La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous cit., par. 35.. L’impegno va dunque rivolto, attraverso un dialogo quanto mai ampio tra le diverse professionalità, alla costruzione di strumenti che siano in grado di mettere a frutto l’aspetto spiccatamente comunicativo, iperdemocratico, della rete, sviluppando nuove ermeneutiche e intrecciandole con quelle già consolidate. La domanda diventa cioè: «che tipo di conoscenza costruiamo con gli strumenti digitali e come la costruiamo?»[32]D. Fiormonte, Per una critica culturale delle Digital Humanities, in F. Ciotti, G. Crupi (eds.), Dall’Informatica umanistica alle culture digitali. Atti del convegno di studi (Roma, 27-28 … Continue reading.
Strumenti di conoscenza
Ciò che consente, per l’utente medio, l’accesso alle informazioni contenute nel web sono i motori di ricerca. La logica sottostante al motore di ricerca è, evidentemente, del tutto diversa rispetto a quella classificatoria e bibliografica – propria di un progetto culturale e ideologico – che ha accompagnato per secoli la ricerca umanistica[33]Cfr. M. Mastrogregori, “Google, la bibliografia e l’attenzione”, Le parole e le cose, 11 aprile 2012.: i «meccanismi di funzionamento di Google, non solo non si basano affatto su classificazioni, ordinamenti, sistemazioni preventive dei “documenti”, ma, in un certo senso, evitano proprio che ciò possa accadere»; essendo però la ricerca affidata a un software, il «codice è diventato ancor più “segreto” di quanto non fosse negli archivi tradizionali e la possibilità dell’utente di esercitare un controllo sui risultati della ricerca», sulla loro affidabilità, «sull’itinerario percorso per arrivarci è pressoché nulla»[34]S. Vitali, Ordine e caos: Google e l’arte della memoria, in A. Spaziante (ed.), Il futuro della memoria: la trasmissione del patrimonio culturale nell’era digitale, Csi Piemonte, Torino 2005, pp. … Continue reading.
Di fronte al rischio rappresentato da questo continente sconosciuto che è il digitale, trovandosi ad avere a che fare con «un paese con tradizioni estranee alle nostre»[35]G. Michetti, “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo. La comunicazione del patrimonio culturale in ambiente digitale”, AIB Studi, 58, 2 (2018), p. 206., le istituzioni culturali hanno reagito inizialmente facendo leva su quel carattere imitativo della rete cui accennavamo, limitandosi a «costruire meri contenitori, copie digitali non dinamiche del catalogo cartaceo, liste di oggetti e riproduzioni accompagnate da didascalie fuori luogo o incomprensibili»[36]E. Ilardi, La narrazione in rete dei patrimoni culturali digitalizzati, in F. Ciotti, G. Crupi (eds.), Dall’Informatica umanistica alle culture digitali cit., p. 315..
Questo panorama è inevitabilmente divenuto più complesso nel tempo. Il Web semantico ha introdotto quelle caratteristiche cui già accennavamo, di estrema frammentazione delle informazioni e insieme di enormi possibilità di aggregarle secondo logiche e percorsi differenti. Sollecitando in questo modo una riflessione su come intrecciare gli strumenti per la costruzione di senso tipici del web (metadati[37]Sulla metadatazione per la conservazione dei documenti in ambiente digitale, cfr. M. Guercio, Archivistica informatica. I documenti in ambiente digitale, Carocci, Roma 2021, pp. 189-199., paradati[38]Cfr. I. Huvila, “Improving the usefulness of research data with better paradata”, Open Information Science, 6 (2022), pp. 28-48., ontologie ecc.) con le tradizioni descrittive dei beni culturali.
Un’ontologia, in particolare, è descrivibile come «rappresentazione formale e condivisa dei concetti e delle mutue relazioni che caratterizzano un certo dominio di conoscenza»[39]Agenzia per l’Italia Digitale, Linee guida nazionali per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico, 2014, p. 14.. Essa definisce cioè i concetti che sono rappresentativi di un dato dominio di conoscenza, e le relazioni che li collegano l’uno all’altro; crea «reti i cui nodi siano capaci di descriversi e mostrarsi completabili logicamente da agenti software che li navigano»[40]S. Di Fazio, Le ontologie. Nuovi paradigmi per la descrizione e l’interoperabilità, intervento al convegno Descrivere gli archivi al tempo di RiC, Ancona, 18 ottobre 2017, p. 4.. La modalità di rappresentazione di conoscenza che in questo contesto diventa dominante è quella del grafo, «un insieme di nodi connessi da relazioni», un’«architettura informativa pluridimensionale e relazionale»[41]Ivi, p. 3., che si allontana da una forma gerarchica e sostanzialmente chiusa.
Un sistema aperto
Non possiamo qui entrare nei dettagli tecnici di queste strutture, quanto risulta rilevante per il nostro discorso è che con il grafo si afferma un sistema aperto di organizzazione della conoscenza. Si è passati da una logica di sistemi chiusi a una di sistemi potenzialmente aperti all’infinito. In questo contesto, riveste un ruolo chiave la nozione di interoperabilità: i «dati acquistano valore di conoscenza quando sono interconnessi con altri dati, quando la loro interconnessione produce deflagranti effetti di rete»[42]G. Crupi, Universo bibliografico e semantic web, in F. Ciotti, G. Crupi (eds.), Dall’Informatica umanistica alle culture digitali cit., p. 305.. Bisogna cioè far sì che i dati escano «dai silos proprietari e siano resi ricercabili, accessibili, intelligibili e riusabili»; «esposti sul web in formati non proprietari, così che possano essere ri-usati, ri-proposti e ri-mixati con altre risorse»[43]G. Michetti, “«Il mondo come puzzle»: i beni culturali nel web” cit., p. 34..
Per quanto concerne i beni culturali, ciò ha una portata che investe la stessa natura delle tradizioni descrittive delle diverse discipline, sollecitando un maggiore sforzo di condivisione e di conciliazione: diversi sono i progetti MAB (Musei Archivi Biblioteche) o GLAM (Galleries Libraries Archives Museums) in questo senso[44]Cfr. ad es. S. Bruni et al., “Verso l’integrazione tra archivi, biblioteche e musei. Alcune riflessioni”, JLIS.it, 7, 1 (2016), pp. 225-244., ma la riflessione è ancora aperta[45]Sulla questione, cfr. F. Valacchi, “The parts and the whole. Integrate knowledge”, JLIS.it, 13, 3 (2022), pp. 1-11.. Come sottolinea Tomasi, spetterebbe alle istituzioni culturali «riprendere in mano quel ruolo di mediatori del sapere», valorizzando la «descrizione degli oggetti culturali attraverso la lente dell’interpretazione, che con la creazione, la selezione e l’utilizzo dei modelli ontologici più adeguati a finalità e obiettivi di ricerca, possa arricchire i dati culturali, e quindi l’esperienza informativa, attraverso l’integrazione di risorse eterogenee e trasversali»[46]F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., p. 73..
Le ricadute epistemologiche di queste problematiche e del paradigma dei linked data sul «mondo del cultural heritage» sono enormi: a essere modificati sono gli stessi «processi cognitivi che hanno finora governato la nostra relazione con l’universo bibliografico e con gli strumenti che storicamente hanno mediato il rapporto tra lettore e conoscenza» (cataloghi, record, indici ecc.)[47]G. Crupi, Universo bibliografico e semantic web cit., pp. 305-306.. Si fa così strada l’idea che una «visione del mondo sia possibile solo a partire dalla consapevolezza che la conoscenza è un processo dinamico di composizione e disarticolazione continua di ciò che scopriamo e sappiamo del mondo»[48]Ivi, p. 306.. Ciò porta con sé numerose potenzialità per la comunicazione dei beni culturali:
«da una parte (…) deve essere l’occasione per la costruzione di una coscienza critica, e quindi deve promuovere un approccio intelligente da parte dell’utente, incoraggiando la costruzione di relazioni, suggerendo ipotesi di ricerca e prospettive alternative, evitando facili concessioni alla pigrizia intellettuale; dall’altra parte, la comunicazione in ambiente digitale deve sfruttare al meglio le potenzialità semantiche per semplificare ed estendere l’accesso alla conoscenza, proporre percorsi ed esplicitare – grazie alla potenza di calcolo dei computer e all’adozione di adeguate architetture di dati – relazioni che risultano invisibili all’occhio umano»[49]G. Michetti, “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo…” cit., p. 210..
Sfide in corso
Come già accennato, le notevoli possibilità di empowerment, di costruzione di una proposta culturale o di una narrazione condivisa, si accompagnano però a problemi altrettanto cogenti, quali la disintermediazione, cioè la possibilità di accedere «direttamente da qualunque parte del grafo», aggirando la «funzione di mediazione tra le fonti e gli utenti» rappresentate dalle descrizioni»[50]G. Michetti, “«Il mondo come puzzle»: i beni culturali nel web” cit., p. 39.. Che si lega a sua volta al tema della perdita del “contesto” (descrittivo, interpretativo, fisico ecc.) del singolo documento[51]Come ha scritto Tom Nesmith: «[a] record is a meaningful communication, which means it consists of a physical object, plus an understanding, or representation of it. Some of what makes a record … Continue reading. Come riuscire a bilanciare la spinta innovativa e di apertura offerta dal web semantico, con la necessità di ordinamenti e costruzioni di senso dalle solide basi scientifiche è appunto la sfida nella quale siamo attualmente immersi.
Ci sembra a questo punto di aver offerto una panoramica abbastanza ampia, ancorché parziale, sulle problematiche che emergono quando si parli di digitalizzazione dei beni culturali. Sufficiente quanto meno per realizzare in che senso la rivoluzione digitale abbia comportato in questo campo un cambiamento non di tecnologia, ma di design della conoscenza. Come scrive Michetti, il «mondo digitale non è neutro», dunque «se si vuole affrontare il tema [dei beni culturali nel web], occorre prima di tutto capire in che direzione ci stanno spingendo le tecnologie digitali. Dobbiamo leggere e usare le tecnologie con senso critico (…). L‘adattamento al digitale è ben più della scelta di un formato, di una procedura o di un software. Questi semmai sono aspetti conseguenti»[52]G. Michetti, “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo…” cit., p. 208.. È lo stesso paradigma del “fare scienza” che è stato rivoluzionato attraverso il digitale[53]C. Thanos, “Infrastrutture Digitali Aperte per la Comunicazione Scientifica”, DigItalia, XI, 1/2 (2016), pp. 51-52., e in quest’ottica produrre, comunicare, organizzare la conoscenza appaiono come azioni sempre più interconnesse, solo artificialmente separabili. La strada maestra da seguire sembra dunque quella di una sempre maggiore ibridazione tra discipline.
References
↑1 | Coordinato da Luca Gorgolini (Unirsm), da Michele Chiaruzzi (Unibo; Unirsm), e dal nostro direttore, Massimo Mastrogregori, il progetto si è avvalso della consulenza scientifica di un gruppo di ricerca composto, oltre che dai coordinatori, da Rosa Gobbi (Archivio di Stato della Repubblica di San Marino), Isabella Manduchi (Archivio di Stato della Repubblica di San Marino), Matteo Sisti (Memorie di Marca) e Stefano Vitali (già direttore dell’Istituto centrale per gli archivi). Il censimento è stato realizzato da Damiano Muccioli, mentre alla proposta di digitalizzazione hanno lavorato, per il nostro centro, Alessandro Fiorentino e Andreas Iacarella. |
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↑2 | Il video mockup del portale è accessibile a questo link. |
↑3 | In accordo con il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 101) «sono istituti e luoghi della cultura i musei, le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali». |
↑4 | Del 1993 è l’istituzione dell’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione (AIPA), da cui sarebbe derivata, nel 2012, l’Agenzia per l’Italia digitale (AgID), tutt’ora operante. Per una panoramica storica sulla conservazione digitale in Italia, cfr. S. Pigliapoco, “Le figure professionali per la conservazione degli archivi digitali”, Archivi, X, 2 (lug.-dic. 2015), pp. 63-68. |
↑5 | Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital Library, Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022/2023, versione 1.1, Ministero della cultura, 2023, p. 4. |
↑6 | Ibid. |
↑7 | Ivi, p. 5. |
↑8 | J. Drucker, P. Lunefeld, T. Presner, J. Schnapp, The Digital Humanities Manifesto 2.0, 2009. |
↑9 | J. Mussell, Doing and making. History as digital practice, in T. Weller (ed.), History in the Digital Age, Routledge, London and New York 2013, p. 80. |
↑10 | F. Tomasi, Organizzare la conoscenza: Digital Humanities e web semantico. Un percorso tra archivi, biblioteche e musei, Editrice Bibliografica, Milano 2022, p. 38. |
↑11 | Cfr. T. O’Reilly, What is Web 2.0. Design patterns and business models for the next generation of software, 2005. |
↑12 | F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., p. 38. |
↑13 | Nella definizione di Jeff Howe: «Crowdsourcing is the act of taking a job traditionally performed by a designated agent (usually an employee) and outsourcing it to an undefined, generally large group of people in the form of an open call». Cit. in S. Noiret, La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous, in Read/Write Book 2. Une introduction aux humanités numériques, OpenEdition Press, Marseille 2012, par. 3, n. 2. |
↑14 | F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., p. 38. |
↑15 | Ivi, p. 34. |
↑16 | G. Michetti, “«Il mondo come puzzle»: i beni culturali nel web”, DigItalia, XV, 1 (2020), pp. 38-39. |
↑17 | F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., pp. 92-96. |
↑18 | Sull’illogicità di alcuni di questi progetti, cfr. N. Ordine, “Il paradosso dei manoscritti digitalizzati”, Corriere della sera, 28 maggio 2022. |
↑19 | J. Mussell, Doing and making cit., p. 82. |
↑20 | N. Brügger, The archived web. Doing history in the digital age, MIT Press, Cambridge and London 2018, p. 17. L’autore distingue, per quanto riguarda le fonti storiche sul web, tra «digitized material», «born-digital material» e «reborn digital material». Ivi, pp. 21-23. |
↑21 | S. Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Mondadori, Milano 2004, p. 150. |
↑22 | Ivi, pp. 155-166. |
↑23 | Ivi, p. 140. |
↑24 | S. Vitali, La ricerca archivistica sul web, in R. Minuti (ed.), Il web e gli studi storici. Guida critica all’uso della rete, Carocci, Roma 2015, p. 63. È questo un tema sul quale hanno ragionato a lungo studiosi quali Serge Noiret, impegnati nella definizione degli strumenti e delle problematiche di una digital public history. |
↑25 | Pratiche, servizi e strumenti del Web 2.0 non soltanto abbandonano la «rassurante structure linéaire de l’écriture traditionnelle des livres», ma s’interpongono «entre la construction technologique (…) et la construction culturelle, le contenu, comme un objet non terminé, en continuelle transformation et sans un auteur précis à qui se référer». S. Noiret, La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous cit., par. 17. |
↑26 | S. Vitali, Passato digitale cit., p. 113. |
↑27 | S. Noiret, “Storia pubblica digitale”, Zapruder. Storie in movimento, 36 (2015), p. 12. |
↑28 | Cfr. R. Rosenzweig, Everyone a Historian. Riflessione pubblicata dall’autore sul sito dedicato al volume The presence of the past. Popular uses of history in American life (Columbia UP, New York 1998), scritto insieme a David Thelen. |
↑29 | S. Noiret, “Storia pubblica digitale” cit., p. 15. |
↑30 | Ivi, pp. 15-16. |
↑31 | S. Noiret, La digital history: histoire et mémoire à la portée de tous cit., par. 35. |
↑32 | D. Fiormonte, Per una critica culturale delle Digital Humanities, in F. Ciotti, G. Crupi (eds.), Dall’Informatica umanistica alle culture digitali. Atti del convegno di studi (Roma, 27-28 ottobre 2011), Sapienza Università Editrice, 2012, p. 220. |
↑33 | Cfr. M. Mastrogregori, “Google, la bibliografia e l’attenzione”, Le parole e le cose, 11 aprile 2012. |
↑34 | S. Vitali, Ordine e caos: Google e l’arte della memoria, in A. Spaziante (ed.), Il futuro della memoria: la trasmissione del patrimonio culturale nell’era digitale, Csi Piemonte, Torino 2005, pp. 85-86. |
↑35 | G. Michetti, “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo. La comunicazione del patrimonio culturale in ambiente digitale”, AIB Studi, 58, 2 (2018), p. 206. |
↑36 | E. Ilardi, La narrazione in rete dei patrimoni culturali digitalizzati, in F. Ciotti, G. Crupi (eds.), Dall’Informatica umanistica alle culture digitali cit., p. 315. |
↑37 | Sulla metadatazione per la conservazione dei documenti in ambiente digitale, cfr. M. Guercio, Archivistica informatica. I documenti in ambiente digitale, Carocci, Roma 2021, pp. 189-199. |
↑38 | Cfr. I. Huvila, “Improving the usefulness of research data with better paradata”, Open Information Science, 6 (2022), pp. 28-48. |
↑39 | Agenzia per l’Italia Digitale, Linee guida nazionali per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico, 2014, p. 14. |
↑40 | S. Di Fazio, Le ontologie. Nuovi paradigmi per la descrizione e l’interoperabilità, intervento al convegno Descrivere gli archivi al tempo di RiC, Ancona, 18 ottobre 2017, p. 4. |
↑41 | Ivi, p. 3. |
↑42 | G. Crupi, Universo bibliografico e semantic web, in F. Ciotti, G. Crupi (eds.), Dall’Informatica umanistica alle culture digitali cit., p. 305. |
↑43 | G. Michetti, “«Il mondo come puzzle»: i beni culturali nel web” cit., p. 34. |
↑44 | Cfr. ad es. S. Bruni et al., “Verso l’integrazione tra archivi, biblioteche e musei. Alcune riflessioni”, JLIS.it, 7, 1 (2016), pp. 225-244. |
↑45 | Sulla questione, cfr. F. Valacchi, “The parts and the whole. Integrate knowledge”, JLIS.it, 13, 3 (2022), pp. 1-11. |
↑46 | F. Tomasi, Organizzare la conoscenza cit., p. 73. |
↑47 | G. Crupi, Universo bibliografico e semantic web cit., pp. 305-306. |
↑48 | Ivi, p. 306. |
↑49 | G. Michetti, “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo…” cit., p. 210. |
↑50 | G. Michetti, “«Il mondo come puzzle»: i beni culturali nel web” cit., p. 39. |
↑51 | Come ha scritto Tom Nesmith: «[a] record is a meaningful communication, which means it consists of a physical object, plus an understanding, or representation of it. Some of what makes a record meaningful is inscribed within it, but oftenmuch of what makes it intelligible is not. Thus most of a record’s “recordness” lies outside its physical borders within the context of its interpretation». T. Nesmith, “Still fuzzy but more accurate: some thoughts on the ‘ghosts’ of archival theory”, Archivaria, 47 (1999), p. 144. |
↑52 | G. Michetti, “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo…” cit., p. 208. |
↑53 | C. Thanos, “Infrastrutture Digitali Aperte per la Comunicazione Scientifica”, DigItalia, XI, 1/2 (2016), pp. 51-52. |