Pubblichiamo la trascrizione della lezione tenuta dal direttore del Gramsci centre for the humanities, Massimo Mastrogregori, agli allievi della Scuola superiore di studi storici di San Marino lo scorso 24 giugno, sul tema: Gramsci, Rivarol e i libri non letti (Quaderni del carcere, 23, 4). Di seguito il lettore troverà una discussione con gli allievi della Scuola e un intervento del Prof. Fabio Frosini dell’Università di Urbino, che ringraziamo di cuore per essere intervenuto, in un secondo momento, nella discussione.
I
Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo. Almeno finché l’autore è vivo…
Questa massima di Rivarol può fare il paio con un’altra che ho trovato, mentre preparavo questa chiacchierata con voi. Oscar Wilde diceva: se devo scrivere la recensione di un libro, mi guardo bene dal leggerlo, è così facile farsi influenzare…
Oggi ragioniamo su alcune qualità, forse un po’ misteriose, della lettura e della non lettura. Soprattutto ci interessa anche il rapporto che c’è tra questa massima e il pensiero di Gramsci, che la trascrive due volte sui quaderni, in apertura del suo lavoro carcerario nel 1929, poi nel 1934.
Allora: per lodare un libro non è affatto necessario aprirlo, per criticarlo è sempre prudente leggerlo. Siamo nella dimensione del prendere posizione – lodare, criticare – quindi in una dimensione pubblica, non nel chiuso del nostro studio.
Prendere posizione in pubblico: in forma scritta o in una conversazione. Rivarol, autore del secondo Settecento, appartiene alla civiltà della conversazione: è più probabile che si riferisse a qualcosa che si dice, più che a qualcosa di scritto. Lodare, criticare: sono due opposti, due possibilità che si aprono in una specie di mercato della discussione pubblica sui libri.
Tale mercato, o spazio comune della discussione pubblica sui libri, ha dei confini, delle regole – qualcuno ha parlato di una dogana: far passare i libri significa rilanciare le idee che ci sono dentro, amplificarle, promuoverle; al contrario criticare – fino al limite della stroncatura, del rifiuto di ammettere quei libri nello spazio comune – significa bloccare, diminuire, silenziare quelle idee.
È interessante: in questa massima di Rivarol la presa di posizione, di cui parliamo, precede qualsiasi contatto con il libro. Intanto egli ammette, o suggerisce, che possiamo anche non aprirlo, se vogliamo parlarne bene. Questo escluderebbe ogni contatto. Poi dice: se si è deciso di criticarlo, decisione precedente, in parte anche indipendente dal libro in senso stretto, oggetto di carta o immateriale. Evidentemente non sta parlando del libro in senso stretto.
Intorno a quell’oggetto ci sono delle forze operanti: il gusto dell’epoca, il nome dell’autore, la scuola, o il partito, o il gruppo o gruppetto a cui l’autore appartiene. Ci sono relazioni di potere o di prestigio, motivi, in parte misteriosi, di attrazione, o di repulsione, che aiutano o impediscono qualsiasi contatto con il libro.
Se le cose stanno così – una decisione precedente, forse motivata, sull’incontro o meno col libro – registriamo con attenzione quello che Rivarol ci propone di fare col libro. A parte non aprirlo – la non lettura – dice che è sempre prudente leggerlo, se vogliamo parlarne male.
Ci sono, ovviamente, molti modi di leggere. Senza seguire la strada dei semiologi alla Eco o della sociologia della lettura, analisi molto raffinate, limitiamoci in questa conversazione a delle osservazioni empiriche. Da una parte c’è l’ascolto integrale, totale, l’estrema attenzione per le parti e per il tutto, per la lettera e per lo spirito – simili all’esplorazione scientifica di un territorio, magari per disegnarne una mappa esatta, o per coltivarlo intensivamente, o anche per controllarlo militarmente. Dall’altra c’è l’incursione, il passaggio rapido, magari il saccheggio o il piccolo furto, in una zona sconosciuta – come in una foresta impenetrabile, o in una terra di nessuno.
Cinque figure, almeno, rappresentano l’ascolto integrale, totale, o piuttosto vi “tendono”: il copista, “unico vero lettore” secondo il direttore di questa scuola, Luciano Canfora; il filologo, che “costruisce”, e costituisce, il testo, di fronte al movimento di esso, alle inevitabili incertezze; l’editor attento, a cui un testo è affidato per migliorarlo; il traduttore che deve riscriverlo, per trasportarlo in un altro mondo linguistico; il commentatore, che deve spiegarlo.
Dei passaggi rapidi, “predatori”, non occorre dire troppo: li conosciamo bene, quando non entriamo in uno di questi cinque ruoli, e magari anche quando ci entriamo.
Noi visitiamo, per fare un altro esempio, l’Aula gotica dei Santi Quattro coronati, a Roma: in un paio d’ore osserviamo gli affreschi, con la massima attenzione – ma sarà davvero poca cosa rispetto al lavoro col bisturi sul muro, giorno per giorno, per nove anni e cioè tremilatrecento giorni, della restauratrice che quegli affreschi ha riportato alla luce.
Come vedete, l’alternativa secca tra “lettura” e “non lettura” è troppo povera. C’è poi la questione della seconda lettura, a cui molti autori accennano. Gramsci stesso vi fa riferimento (Quaderni, 21, 14): il lettore comune, popolare, si limita a leggere una volta sola, attratto dai contenuti “ideologici”, mentre solo la seconda lettura ci fa entrare nella dimensione più profonda dei valori artistici (detto in parole povere). E ho trovato un’affermazione simile in una lettera di V. Nabokov a Vera, del 1939: solo la seconda lettura è quella “reale”.
In questo ordine di cose, i comportamenti non sono realmente liberi. Ha ragione Pierre Bayard – all’inizio del suo libro Comment parler des livres que l’on n’a pas lus? (2007) – a dire che facciamo i conti con tre obblighi non scritti: quello di leggere un certo numero di testi imprescindibili; quello di leggerli per intero; quello di non parlarne, se non dopo averli letti. Ponendosi nel ruolo di anti-lettore, Bayard dà utili suggerimenti su come trasgredire tali comandamenti.
II
Nell’edizione nazionale di Gramsci, nella nota del primo quaderno relativa alla massima che stiamo discutendo, i curatori scrivono: “Antoine Rivaroli (1753-1801), detto il conte di Rivarol, scrittore e giornalista francese di origine italiana”. È un’annotazione necessariamente stringata: vediamo di aggiungere qualcosa.
È uno scrittore molto brillante, Voltaire lo definiva a quanto pare il “francese per eccellenza”, e Sainte-Beuve, addirittura, il “dio della conversazione”. Gli accenni che ho fatto finora alla conversazione sono particolarmente appropriati per Rivarol perché la sua produzione effettivamente pubblicata è assai limitata, si parlava della sua pigrizia leggendaria, associata a letture massicce, forse eccessive. Celebre, e ancora oggi ripetuta, è un’altra sua massima, probabilmente autocritica: “non aver fatto nulla è un terribile vantaggio, ma non bisogna abusarne”.
Non aver fatto nulla, in rapporto ai libri non pubblicati, che Rivarol avrebbe potuto invece approntare. Ma la conversazione, nei salotti parigini, la sera, la notte, è pur qualcosa, è anzi molto: la parte invisibile della sua opera, una parte da non trascurare – come osserva Ernst Jünger nel migliore profilo esistente su Rivarol (1956).
Per la lingua come fenomeno storico egli aveva un grandissimo interesse. Non solo, agli inizi, come autore di un saggio – premiato dall’Accademia di Berlino – sull’universalità della lingua francese, ma anche, verso la fine, come ideatore e unico estensore di un dizionario di quella lingua, poi neppure iniziato (ne resta il prospetto). Fu anche traduttore dell’Inferno di Dante.
Ecco: studioso della lingua, traduttore – c’è qui un punto di contatto con Gramsci, linguista che si forma alla scuola di Matteo Bartoli, poi apprendista traduttore proprio all’inizio dell’esperienza dei Quaderni. Anche la pratica del giornalismo li accomuna, saper reagire di fronte agli eventi, mettere in forma brillante, rapida, appuntita un discorso su quello che succede (il primo dopoguerra per Gramsci, la Rivoluzione per Rivarol) e anche li avvicina, se vogliamo, un certo antagonismo nei confronti del tempo in cui vivono – Rivarol esiliato, Gramsci carcerato. Comuni, infine, proprio il gusto per la conversazione e per la critica filosofica.
Certamente, i due autori appartengono a due trincee, a due barricate completamente opposte: perché la sfiducia totale che Rivarol – avvocato difensore della monarchia di fronte alla Rivoluzione e per questo esiliato – nutre nei confronti del popolo è agli antipodi del progetto del comunista Gramsci, il cui obiettivo principale è quello di trasformare il popolo in classe dirigente. (Non a caso, il nome di Rivarol è stato sempre molto sfruttato dall’ultradestra francese, da Maurras a Le Pen).
Ma in che momento Gramsci incontra la massima di Rivarol? Il rapporto di Gramsci in carcere con la lettura e la non lettura, dal novembre 1926, conosce tre fasi distinte.
C’è un primo momento, che dura dal novembre 1926 fino all’inizio del 1929, in cui egli può soltanto leggere, non ha il permesso di scrivere appunti: è il tempo in cui Gramsci “divora” libri, riviste, giornali (non ne è particolarmente contento: preferirebbe “lavorare”). Non ci sono però alternative: la sua richiesta di poter scrivere in cella è respinta. Va sempre considerata, nell’immaginare la sua situazione, la fortissima pressione che il regime fascista esercita su di lui come detenuto, dall’inizio alla fine: dalla sorveglianza continua, al sonno interrotto dai rumori delle guardie, agli spostamenti da un carcere all’altro in condizioni estremamente dure (e come è noto non era certo in buona salute).
La seconda fase inizia nel gennaio-febbraio 1929: a Turi, il direttore Parmegiani lo autorizza, in via eccezionale, a scrivere in cella, su dei quaderni. È un lavorare, finalmente; ma il frutto di tale lavoro, per essere comunicato all’esterno, deve “saltare” oltre il muro di una sorveglianza molto stringente. È escluso, infatti, che le pagine dei quaderni possano essere diffuse dal detenuto (mentre le autorità invece vi accedono). Qualcosa Gramsci farà filtrare nelle lettere che gli è dato di scrivere: ciò che vi si legge va affrontato anche decifrandone il possibile codice.
Per vari motivi, dall’estate 1935, questo lavoro di scrittura dei Quaderni sembra aver termine: è la terza fase, molto simile alla prima – continuava, infatti, a leggere molto, senza più scrivere.
Ricevuta l’autorizzazione a scrivere sui quaderni, alla fine di gennaio 1929, Gramsci si mette in uno stato di guardinga attesa, durante la quale – forse per prudenza nei confronti del carceriere che lo osserva, forse per altri motivi – per lo più traduce. All’inizio, dunque, per lui studiare è tradurre: siamo all’interno di una di quelle figure, a cui abbiamo accennato, della lettura intensa, integrale.
Nell’estate 1929 inizia a prendere note sul Primo quaderno, sul quale l’8 febbraio precedente aveva stilato un elenco di argomenti da studiare. Una delle prime note è proprio la massima di Rivarol.
Gramsci la legge alla fine di un articolo di Attilio Cabiati, comparso nel fascicolo di marzo-aprile 1929 de “La Riforma sociale” (la scoperta di questa fonte è di Fabio Frosini). Cabiati riporta la massima, in polemica con Achille Loria. Lo accusa, dietro lo schermo della citazione, di non aver letto il libro che ha voluto criticare (dello stesso Cabiati). Loria, nel fascicolo successivo, respingerà l’addebito, sdegnosamente, puntigliosamente. Come dimostrare, in effetti, che una lettura è (o non è) avvenuta?
III
A Gramsci la massima di Rivarol sarà sembrata interessante per vari motivi. Intanto egli stesso si trova nella condizione di dover criticare libri che non ha letto, o potuto leggere.
La sua condizione di detenuto estende molto i limiti naturali – già molto estesi – di ogni lettore. Non solo il regolamento carcerario, infatti, fissa un limite quantitativo alle sue letture, ma l’autorità può trattenere quando vuole i libri a lui destinati, senza consegnarglieli mai.
Del resto un libro non è soltanto pagine, righe, corpi, lettere; i libri sono anche idee, alcune delle quali si trovano intorno ad esso, più che dentro: la sua sarà quindi, in assenza eventuale del libro vero e proprio, una critica delle idee.
Poi sarà stato attratto da quella situazione, la polemica di Cabiati con Achille Loria, economista e sociologo. E la massima di Rivarol si collega con la critica al “lorianismo”, il peccato molto grave a cui Gramsci vorrebbe dedicare tutto un quaderno speciale, e che consiste nella mancanza di ordine intellettuale e di precisi obiettivi da raggiungere.
IV
Gramsci ha ben chiaro, invece, che cosa sia l’ordine nelle questioni intellettuali, e quali siano gli obiettivi da raggiungere.
Si è trovato in mezzo a una guerra per la liberazione dell’umanità, ha preso posizione fin da giovane per il Partito Socialista, poi, quando è scoppiata la rivoluzione russa, per il Partito Comunista, che ha contribuito a fondare in Italia. Naturalmente sa di essere stato sconfitto. Ma sa anche che questa sconfitta potrebbe essere provvisoria, la guerra potrebbe avere esito diverso. In tale guerra per la liberazione dell’umanità il popolo deve diventare classe dirigente, gli operai e contadini vanno trasformati in persone nuove, da passivi diventeranno attivi. Per ottenere questo risultato, l’organizzazione della cultura è fondamentale. Affinché si compia tale trasformazione ci vuole, dice Gramsci, una disciplina interiore in ciascuno, e allora si formerà una reale volontà collettiva, che non sarà imposta dall’esterno, o dall’alto. Si formerà all’interno di ciascun combattente di questo partito-esercito.
Nelle note dei Quaderni Gramsci ritiene utile costruire una specie di fantasma polemico, un esempio negativo di mancata organizzazione della cultura, un manuale illustrato di atteggiamenti da evitare. La cattiva organizzazione culturale riceve, appunto, il nome di “lorianismo”, difetto gravissimo di chi agisce come i loriani, gli imitatori del cattivo maestro Achille Loria: si interessano seriamente di problemi inutili, argomentano in modo incoerente, magari non leggono i libri che criticano e soprattutto deformano il materialismo storico. Gramsci è concentrato sulla figura di questo economista sociologo, che non stima affatto. Scrive, a un certo punto, che nel suo accanimento nei confronti di questa persona c’è qualcosa di ingiusto: tutte le persone hanno anche volti, aspetti diversi. Ma lo spettro del lorianismo sarà utile, dice, per far capire a operai e contadini, in modo rapido – molto più rapido che con un’educazione istituzionale, per la quale non c’è tempo – qual è la strada da non seguire.
Per trasformare la qualità culturale degli operai e dei contadini, per risvegliarli dalla loro passività, Gramsci elabora un piano editoriale, che riguarda riviste, libri, giornali (cinema e radio, già sviluppati negli anni Venti e Trenta, non ricevono da lui grande attenzione, al contrario del teatro, sul quale riflette molto, e della musica, che occupa un certo spazio).
I Quaderni sono disseminati di note di tipo organizzativo su come dovranno essere fatte le riviste, le collezioni librarie, di cosa devono parlare e come, le rubriche e i temi, come affrontare il mercato editoriale.
Si tratta, pensa Gramsci, di costruire un pubblico nuovo, sia dei lettori che egli chiama “ideologici”, malleabili, sensibili ai contenuti, sia dei lettori “economici”, in grado di acquistare libri e riviste (e mi chiedo se qui il nostro autore non stia pensando anche ad attrarre elementi della “classe media”, in questo “pubblico nuovo”).
Si tratta anche, egli dice, di controllare tutti i centri e i movimenti intellettuali presenti, non solo in Italia evidentemente. Controllo che passerà proprio per la critica dei libri – rassegne complete, in un dato ambito; e le recensioni saranno diverse, a seconda che il pubblico debba leggere quel determinato libro, o al contrario non possa accedervi.
Si tratta, infine, di cercare i “concetti errati che circolano senza controllo e censura” nella letteratura a cui il movimento operaio e contadino fa riferimento, studiare bene i prodotti di “gruppi e gruppetti caratterizzati da motivi ideologici e psicologici particolari”. Per arrivare a una “elaborazione nazionale unitaria di una coscienza collettiva omogenea”. Un centro culturale “omogeneo” si incaricherà di “rettificare i singoli prismi” attraverso cui passerà “lo stesso raggio luminoso”.
Ma dove si trova il generale, lo stratega che sta delineando questo piano di battaglia? È chiuso in una cella a Turi e non può comunicare con l’esterno. Aveva fatto degli sforzi enormi per passare da un paesino della provincia di Cagliari a una capitale culturale come Torino, e poi a grandi città come Mosca, come Vienna, come Roma. Ora la sconfitta lo ha precipitato di nuovo, in stretta detenzione, in un paesino sperduto del sud – che lascerà solo perché è troppo malato, e finirà i suoi giorni in una clinica romana. Poi, come sulle montagne russe, di nuovo in alto, lontano, autore globale, mondiale, grazie al “riscatto”, graduale, della sua opera, grazie al rilancio curato da Togliatti e da Giulio Einaudi. Sarà servito a qualcuno quel piano di battaglia?
V
Andrei a questo punto verso una specie di riepilogo. Perché l’incontro di Gramsci con la massima di Rivarol è interessante? Perché la non lettura – che Rivarol ammette con cinismo, e che Gramsci dovette praticare per necessità – ci fa riflettere sui “confini” del libro. E ci chiediamo come sia fatto lo spazio in cui “incontriamo” i libri: su di esso incombe un universo di libri non letti.
Una descrizione divertente d’uno spazio simile si trova all’inizio di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino (1979).
Hai visto su un giornale che è uscito Se una notte d’inverno un viaggiatore, nuovo libro di Italo Calvino che non ne pubblicava da vari anni. Sei passato in libreria e hai comprato il volume. Hai fatto bene.
Già nella vetrina della libreria hai individuato la copertina col titolo che cercavi. Seguendo questa traccia visiva ti sei fatto largo nel negozio attraverso il fitto sbarramento dei Libri Che Non Hai Letto che ti guardavano accigliati dai banchi e dagli scaffali cercando di intimidirti. Ma tu sai che non devi lasciarti mettere in soggezione, che tra loro s’estendono per ettari ed ettari i Libri Che Puoi Fare A Meno Di Leggere, i Libri Fatti Per Altri Usi Che La Lettura, i Libri Già Letti Senza Nemmeno Bisogno Di Aprirli In Quanto Appartenenti Alla Categoria Del Già Letto Prima Ancora D’Essere Stato Scritto […] i Libri Che Ti Ispirano Una Curiosità Improvvisa, Frenetica E Non Chiaramente Giustificabile […]
L’elenco continua a lungo: allo scrittore gli elenchi piacevano, e se ne può citare anche un altro, quello dei motivi per cui si leggono i classici: al numero 9 si trova che “i classici sono libri che quando si leggono davvero si trovano inediti” (Perché leggere i classici, 1981).
Il “problema dei libri non letti” è un’occasione per capire – in una dimensione più operativa che storica – come creare uno spazio comune, un background comune, una biblioteca che sia collettiva e non soltanto la biblioteca individuale di ciascuno di noi.
In tale spazio convivono non letture, mezze letture, prime letture, letture integrali: non avrebbe senso restringerlo ai “veri lettori”. È uno spazio eterogeneo, misto, spurio: ci troviamo in un certo senso agli antipodi di Gramsci, che lo voleva omogeneo, centralizzato, perché pensato per la battaglia rivoluzionaria.
Non appartenendo a nessun esercito di liberazione, credo, ci troviamo in una situazione molto diversa (non per questo siamo privi di obiettivi da raggiungere!): e qui mi fermerei, per ascoltare le vostre osservazioni e domande.
VI
Discussione
Sergio Brillante: Nell’edizione Gerratana non figura, in nota, la fonte della massima di Rivarol, che non era stata ritrovata. Volevo qualche chiarimento su questo particolare, e anche sapere se ci sono connessioni che “legano” la citazione di Rivarol ad altri testi dei Quaderni.
M. M.: È vero, la scoperta di questa fonte è relativamente recente. Togliatti-Platone avevano fatto della massima di Rivarol uno degli “appunti sparsi” nel volume Passato e presente (per altro, nell’indice dei nomi, Rivarol non figurava). Gerratana, nell’edizione critica, non aveva individuato la fonte. Come dicevo, è stato Fabio Frosini, nel 1991, a trovare la polemica Cabiati-Loria del 1929, parlandone poi nel suo Gramsci e la filosofia (2003). È giusto anche, come lei suggerisce, cercare di inserire la citazione Rivarol in una rete di rimandi.
La massima di Rivarol, in effetti, non è isolata. Sia al suo primo apparire (Primo quaderno), che quando nel 1934 è ricopiata nel quaderno speciale sulla critica letteraria, essa è affiancata, o quasi, da un’altra nota, su che cosa debba intendersi per “originalità” di un’opera.
Dal fascicolo successivo de “La Riforma sociale”, Gramsci estrae infatti una citazione di Luigi Einaudi, che copia, sempre nel Primo quaderno, a distanza di poche pagine dalla massima di Rivarol (rispettivamente, paragrafi 6 e 11).
Le righe di Einaudi sull’originalità, nota Gramsci, non sono affatto originali e sono frutto di una lettura poco attenta: derivano dal libro di Croce sul materialismo storico, in particolare da un saggio di critica delle teorie di Loria (ancora lui). Libro che il carcerato ha davanti a sé e può citare per esteso. Nei Quaderni, Gramsci copierà quel breve testo di Croce, che gli piace molto, in tutto quattro volte. L’ultima, nel quaderno 23, subito dopo la massima di Rivarol.
Quella massima, insomma, fa implicitamente parte di una piccola costellazione di contenuti, che tornano varie volte nei Quaderni: Loria non legge i libri di cui fa la critica; Einaudi, che ha il torto di “accreditare”, spesso e volentieri, l’opera di Loria, è un lettore poco attento di Croce (ma è anche un orecchiante del materialismo storico); Croce, che critica Loria, fa delle giuste distinzioni su ciò che è “originale”.
Giulia Beccaria: Nella nota precedente a quella della citazione Rivarol, Gramsci maltratta un po’ Ungaretti, a capo di una “banda” di poeti abbastanza mediocri: è vero dunque, come lei diceva poco fa, che nei Quaderni si trovano più critiche che lodi…
M.M.: Certo, più critiche che lodi, perché si tratta soprattutto, come accennavo prima, di trovare e eliminare i “concetti errati”, diffusi a livello ideologico nel partito-esercito che occorre formare. Quanto a Ungaretti, la questione dei “gusti” di Gramsci rientra in un problema più generale. Aver trasformato in libro vero e proprio i suoi quaderni di note e appunti comportava dei rischi, rispetto ai quali le “cautele” di Gramsci stesso erano molto esplicite (su questo c’è un saggio di G. Cospito). Forte era l’orientamento politico del suo “canone” letterario, ma ci sarà anche stata, forse proprio nel caso di Ungaretti che lei solleva, e che non conosco, una dimensione anche personale, un limite personale, se volete. Quanto è novecentesca la cultura di Gramsci e quanto, invece, ottocentesca? Pensate alla nota, in cui dice di essere abbastanza estraneo a Freud, alla psicoanalisi e di non conoscere gli scrittori che considera ad essa legati, Svevo, Proust, Joyce (Quaderni, 1, 33). Croce era più vecchio di Gramsci di venticinque anni, è vero, ma, per fare un esempio diverso, era quasi del tutto estraneo al cinema come linguaggio: limite personale, e insieme storico, della sua cultura: le figlie cercavano di smuoverlo da quella posizione, ma niente, il filosofo restava fermo. Così, anche nel caso di Gramsci, forse alcuni suoi interessi – per il romanzo poliziesco straniero, per esempio – superano i limiti “cronologici” dei suoi gusti, altri interessi meno.
Andrea Beghini: Il discorso dei “libri non letti”, o dei libri di cui si conoscono le idee, o solo degli estratti “antologici”, ma non i testi completi – questa descrizione non corrisponde forse a quello che accade nella scuola, nel liceo classico ad esempio, dove la formazione gira intorno a un canone di opere e di autori, che gli studenti non possono leggere davvero?
M.M.: L’osservazione mi sembra giusta: nel liceo classico, nel bene e nel male, si costruisce, nei cinque anni, nelle menti degli studenti, una “enciclopedia” di idee degli autori classici, medievali, moderni ecc. – autori che non sono letti, salvo alcune eccezioni. Questo è un esempio di “biblioteca collettiva”, della quale si esplora, nei casi migliori, appunto la “situazione” dei singoli libri in rapporto agli altri, che compongono il repertorio, e si impara ad “orientarsi” in tale rete di rapporti. Certamente tale biblioteca collettiva in parte si sovrappone alle “biblioteche individuali” degli studenti, quali che esse siano nel momento attuale. A questo ultimo proposito, mi verrebbe da chiedere in che modo la “enciclopedia” pensata da Gentile cento anni fa possa essere rivoluzionata, o anche solo cambiata, ma è un terreno minato, credo. Ma questo della scuola è un aspetto molto interessante del “problema dei libri non letti” – lei ha fatto benissimo a sollevarlo.
La massima di Rivarol: un intervento di Fabio Frosini
Accetto con molto piacere l’invito di Massimo Mastrogregori a intervenire, sia pure in forma “differita”, in questa conversazione su una citazione gramsciana.
Devo però anzitutto confessare il mio imbarazzo, perché so già che non potrò che dare rapidi cenni di ciò che vorrei dire, e non perché abbia nel mio “magazzino” ingenti dati da comunicare, ma perché il “laboratorio” nel quale sono stato invitato a entrare mi ha messo a contatto con una serie di questioni che, a loro volta, ne hanno suscitato in me altre, in una serie di implicazioni alle quali non può rendere giustizia un rapido intervento.
Ma, fatta questa premessa, e volendo offrire un contributo alla discussione, tenterò comunque di delineare alcuni punti e spunti, che mi appaiono particolarmente rilevanti, e per fare ciò proverò a concentrarmi su due prospettive distinte ma connesse: in primo luogo l’autore della frase, Rivarol, e quindi la – o meglio, come si vedrà, le rifunzionalizzazioni della citazione entro l’architettura dinamica e in divenire dei Quaderni.
Sull’autore della frase ripresa – come abbiamo visto – da una fonte indiretta, ho poco da aggiungere a quanto già scritto da Mastrogregori. Vorrei però almeno insistere sul fatto che non si tratta di un “autore” di Gramsci. Un autore, intendo, come poteva esserlo (per non allontanarci troppo dall’epoca in cui Rivarol visse) un Voltaire. Mentre di quest’ultimo Gramsci mostra, e non solo nei Quaderni, ma dagli anni torinesi, di avere una conoscenza abbastanza accurata, il conte di Rivaroli non cade mai sotto la sua penna, né si può immaginare che egli avesse con lui, pur in assenza di riferimenti espliciti, una qualche dimestichezza, perché – e qui dobbiamo ricorrere a un elemento induttivo un po’ scivoloso – la cultura di Gramsci non è propriamente né quella di un settecentista, né sopratutto è quella di un ammiratore dei “lumi”. Infatti, agli occhi di Gramsci (che doveva la sua immagine di quella corrente culturale francese in buona parte a Croce), “illuminismo” significava sopratutto razionalismo astratto, democratismo antistorico, umanitarismo inefficace ecc. Egli lo leggeva a ritroso, a partire dalla tradizione radico-socialista e massonica della Terza Repubblica, ovvero gli arrivava per la mediazione partigiana del Sorel de Les illusions du progrès.
Così, mentre i riferimenti a Voltaire – sparsi in scritti che vanno dal 1917 ai Quaderni – attestano un genuino interesse per l’autore del Candide e la sua critica dell’ottimismo progressista; sul complesso dei philosophes e sui loro eredi pratici, i giacobini rivoluzionari, a lungo Gramsci tace o si pronuncia in modo negativo. È solamente con la lettura di Le Bolchévisme et le Jacobinisme di Albert Mathiez (Paris, Colin, 1920), che fa tradurre e pubblicare a puntate nel 1921 su «L’Ordine Nuovo», che la sua immagine dei giacobini muta radicalmente, acquisendo l’inflessione positiva che sarà sviluppata nei Quaderni (dove si trova – sia detto per inciso – anche una potente rivalutazione dell’Illuminismo). E proprio in un altro libro dello storico francese, La Révolution française (tomo I, Paris, Colin, 1922, a disposizione del prigioniero nel carcere di Turi), Gramsci poteva trovare una caratterizzazione di Rivarol come aspro avversario della rivoluzione e fautore della «contro-rivoluzione violenta» (p. 105).
Non credo tuttavia che un cenno così rapido si sia impresso nella sua memoria. Del resto, Rivarol era noto più per le sue indiscusse capacità aforistiche che per le idee politiche. E probabilmente è in questa veste che Gramsci ne aveva almeno sentito parlare.
Ciò che più colpisce, tuttavia, nella modalità del prelievo e del travaso della citazione dalla fonte – Cabiati, che più avanti prenderemo rapidamente in considerazione – ai Quaderni, è il suo carattere inizialmente estravagante. Gramsci, come è stato ricordato, trascrive il passo una prima volta in uno dei primissimi testi dei Quaderni – il § 6 del Quaderno 1 – in una forma che ne fa un testo del tutto atipico. Come è noto, quasi tutti i paragrafi dei Quaderni sono preceduti da un titolo sottolineato, titolo che può iscrivere la nota in una rubrica (o sotto-rubrica), ovvero rappresentare un’“etichetta” individuale, come accade nei testi che precedono e seguono quello che stiamo considerando. Quest’ultimo, invece, è privo di titolo:
“Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo. Almeno sinché l’autore è vivo…” – Rivarol.
Ciò indica che Gramsci, leggendo l’articolo di Attilio Cabiati (Costi comparati e valore internazionale, «La Riforma Sociale», a. XXXVI, fasc. 3-4, marzo-aprile 1929, pp. 210-12, il passo è a p. 212) è colpito dall’aforisma, lo annota, senza però determinare la sua destinazione. Si tratta di un appunto libero, legato solamente al nome del suo autore, posto però alla fine, come elemento informativo, e non a caratterizzare il testo, che quindi conta per sé stesso, per il suo contenuto “puro”.
In questo modo passo a discutere il mio secondo punto, cioè il modo in cui la sentenza di Rivarol viene rifunzionalizzata da Gramsci. A chi pensava quando la trascrive? Evidentemente ad Achille Loria, come è inevitabile che sia, data la fonte. Loria diventerà infatti bersaglio polemico poco dopo, nel § 25, dove però Gramsci riprende la sostanza di un suo articolo di molti anni prima (Pietà per la scienza del prof. Loria, «Avanti!», Cronache torinesi, 16 dicembre 1915) che a sua volta riproponeva le critiche mosse all’economista mantovano da Benedetto Croce e da Friedrich Engels. C’è insomma una lunga storia dietro la polemica ingaggiata da Gramsci, e si può anzi supporre che l’aforisma di Rivarol abbia contribuito a riaccendere quella antica intenzione polemica e a far germogliare l’idea del Lorianismo (espressione coniata nel § 31 del Quaderno 1 e usata come titolo di rubrica a partire dal § 36).
Ma evidentemente il pensiero non va esclusivamente a Loria, se è vero che la seconda stesura, leggermente modificata, trova posto non nel Quaderno 28 (Lorianismo) ma nel 23 (Critica letteraria). Dove però, si noti, con un’inversione significativa il testo riceve un titolo:
Una massima di Rivarol. “Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo. Almeno finché l’autore è vivo…”.
In tal modo questa “massima” erratica trova una collocazione, che ne precisa e pertanto ne limita la portata a una questione (come è adeguatamente emerso nel corso della discussione) di libri letti e non letti, e sopratutto di schermaglie ideologiche in seno alla cultura letteraria nazionale. Avviene così un fatto degno di nota. Mentre la prima stesura manteneva una sorta di equilibrio tra la frase e l’autore, proprio perché l’aforisma era lasciato indeterminato nella sua funzionalità, la seconda stesura marginalizza l’autore, che serve solamente a “categorizzare” il testo, e riversa tutta l’attenzione sul modo in cui la “massima” riesce a illuminare alcuni aspetti della battaglia culturale, con i suoi costumi e malcostumi. L’unità del passo viene così spezzata, e ciò rende possibile la sua riduzione a un solo significato.
Possiamo allora pensare – riprendo qui alcune considerazioni di Mastrogregori – che in quella rapida ripresa nel Quaderno 1 Gramsci pensasse a Loria, ma anche, in modo più indeterminato, alla lettura e non lettura come fatti condizionati, imposti dall’esterno. Non è del resto di seconda mano la citazione da Rivarol, una citazione di cui Gramsci non conosce l’origine precisa? Egli si appropria di questa frase, come fa in numerosissimi altri casi, senza denunciare il percorso (tortuoso) che a ciò ha condotto (e spesso dando enormi grattacapi ai suoi commentatori). Così facendo, le conferisce però un’indeterminatezza che stimola ulteriori pensieri. Uno di essi riguarda il condizionamento esterno della lettura, imposto dalle rigide regole carcerarie.
Ma non è tutto qui. Se infatti andiamo a rileggere l’articolo di Cabiati, vediamo che la polemica con Loria si aggira attorno alla nozione ricardiana di “costi comparati”. Ebbene, si tratta di un concetto che avrà nei Quaderni un certo sviluppo, che va nella stessa direzione di Cabiati, intesa a negare la possibilità di un’analisi del valore prodotto in un singolo spazio nazionale come se questo fosse indipendente dal mercato internazionale. Uno sviluppo, insomma, che pone il concetto marxiano di mercato mondiale alla base dell’analisi economica e che per fare ciò trae tutte le conseguenze dalla teoria, elaborata da Ricardo, di “costi comparati”.
Ricardo riceve nei Quaderni un’importanza straordinaria: non solamente la sua teoria dei “costi comparati” (per cui rinvio a Giuliano Guzzone, Gramsci e la critica dell’economia politica. Dal dibattito sul liberismo al paradigma della “traducibilità”, Roma, Viella, 2018, pp. 169-71), ma l’intera sua elaborazione, posta da Gramsci alla base della filosofia della praxis per i valori filosofici in essa impliciti più e prima che per la teoria del valore. Il problema è però che, anche in questo caso, la lettura diretta di Ricardo non è probabilmente mai avvenuta: Gramsci apprende del suo pensiero per la mediazione di diverse fonti secondarie, e da esse trae stimolo per sviluppare una lettura completamente nuova del nesso tra il pensiero dell’economista inglese e quello dell’autore de Il capitale. Ma dato che di lode (di Ricardo) e non di critica si tratta, si può pensare, con Rivarol, che ciò abbia una certa giustificazione.