La presenza di Benedetto Croce nel dibattito culturale e politico contemporaneo. Dialogo con Michele Maggi

Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista del nostro consigliere Davide Bondì a Michele Maggi, sulla presenza di Benedetto Croce nel dibattito culturale e politico contemporaneo. Maggi, interprete appassionato e acuto della cultura novecentesca, è stato professore ordinario di storia della filosofia politica a Firenze. La prima parte è uscita il 21 gennaio 2020.

4. Ritieni che la proposta crociana di una dimensione filosofica adeguata a confrontarsi con la pienezza della realtà storica sia stata colta negli anni del dopoguerra?

Dopo la seconda guerra l’Europa sarà un campo desolato anche come consapevolezza filosofica, rassegnata ad accogliere i resti del proprio passato intellettuale che tornano, impedantiti, dalle università americane. Croce non è più nel canone scolastico internazionale (ammesso che anche prima ci fosse davvero entrato).

Posso fartene tre esempi, in tre momenti diversi, dall’immediato dopoguerra ai nostri giorni. Nel 1952 Isaiah Berlin, che già si avviava a imporsi come comunicatore culturale influente, recensisce sulla rivista «Mind» la ristampa di una traduzione di saggi di Croce pubblicata nel 1949 a Londra a cura di Raymond Klibansky. Il compito affidatogli è assolto stancamente, senza vera partecipazione mentale: Croce è sì «il più vecchio e largamente celebrato dei continental thinkers», ma irreparabilmente rimasto, come la maggioranza dei pensatori dei paesi latini, «al di fuori della schiera dei pensatori innovatori del nostro tempo», non toccato dalla «grande rivoluzione filosofica dell’ultimo mezzo secolo, iniziata da Frege e Russell». In età avanzata, in un libro-intervista apparso a Parigi nel 1990, Berlin tornerà sul tema quasi infastidito, trovando «sbalorditivo» che Croce abbia dominato così tanto la vita intellettuale in Italia: lui che è uno scrittore di molteplici sfaccettature in vari campi, ma «incomparabile con i maggiori pensatori – Spinoza, Leibniz, Kant o anche Hegel – o ancora con filosofi del XX secolo quali Husserl, Wittgenstein o William James».

Nel libro di un altro studioso che di Berlin aveva condiviso gli anni di compagnonnage universitario, il filosofo analitico Alfred Jules Ayer, una serie di lezioni su The Central Questions of Philosophy pubblicate nel 1973 (tradotte in Italia presso Laterza sotto il titolo di Bilancio filosofico), il nome di Croce non compare nemmeno. E quando se ne occupa, nella sua Philosophy in the Twentieth Century, uscita a Londra nel 1982 e in traduzione italiana l’anno successivo da Laterza, Ayer «dedica – notò una volta Garin – un intero capitolo a Collingwood, che sa dipendente in modo singolare da Croce, ma di Croce fa appena il nome».

La stessa disinvoltura la ritroviamo nel quarto volume della Nuova storia della filosofia occidentale di Anthony Kenny, del 2007, subito tradotto in italiano presso Einaudi, che nel concedere a Croce due paginette confuse nel capitolo «Estetica» divaga in un accostamento della concezione artistica di Croce (accompagnato dal solito Collingwood) addirittura a quella di Tolstoj: per concludere con una rassicurante citazione di Wittgenstein.

Certo, a questo spossessamento non è grado di reagire la cultura di una nazione uscita da un tale crollo materiale e ideale. Tanto più, quando la preoccupazione dominante dei filosofi en titre sembra quella di rimettersi in pari con una supposta modernità internazionale. Di qui la fioritura di scuole universitarie, esistenzialismo, fenomenologia, neopositivismo, prammatismo, con cui sembra avviarsi una nuova stagione finalmente liberata dal controllo crociano. È una fioritura effimera, ed è significativo che testimoni culturali di ampia vista quali Garin o Norberto Bobbio se ne tengano, ognuno a suo modo, a distanza. Quando negli anni ottanta sembra aprirsi una stagione di bilanci, compaiono toni dubbiosi. Garin, nel saggio sconsolato fin dal titolo che introduce il volume di vari autori La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, uscito da Laterza nel 1985, parlerà di «tanta parte della produzione postbellica» come caratterizzata da un «“tradurre” ingenuo e furioso», con la «ricerca esasperata di accoppiamenti, tutti fatalmente sterili, fra dottrine e orientamenti diversi». E non mancherà di avanzare perplessità sulla ricomparsa del tema della «crisi della ragione».

Ma era stato Norberto Bobbio, qualche anno prima, nelle conclusioni a un convegno ad Anacapri sempre sulla «cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980», a rompere ogni idillio corporativo, elencando impietoso l’avvicendarsi delle mode filosofiche negli anni sessanta-settanta, con la rapida obsolescenza dei vari “ismi”: «Ce n’è in giro sempre di più e durano sempre meno: diventa sempre più difficile rincorrerli tutti e molto spesso quando sei riuscito ad acchiapparne uno, stringi nelle tue mani un cadavere. Pensate ai fiumi d’inchiostro versati sul funzionalismo in sociologia. Ed ora? Morto e sepolto. Pensate alla voracità con cui furono letti e divorati i libri di Althusser e della sua scuola. Ed ora? Morti e sepolti. Pensate alla mole di scritti dedicati alla Scuola di Francoforte. Ed ora? Morta e sepolta. Al posto del funzionalismo si sta facendo strada il neo-contrattualismo (scommetto che il prossimo anno sarà di Rawls, anche se negli Stati Uniti è già diventato roba vecchia). Al posto dell’althusserismo, restando nell’ambito del marxismo o del neo-marxismo, si è aperta improvvisamente la diga sulla teoria dei bisogni (ma ho l’impressione che si sia trattato di un fuoco di paglia). Al posto della Scuola di Francoforte, da due tre anni a questa parte furoreggia Niklas Luhmann». E concludeva: «Molto prensile, la nostra filosofia e la nostra cultura in genere, ma poco originale». Come mostra il fatto che «in tutti questi anni abbiamo importato tutto, non abbiamo esportato niente, o quasi niente».

Quello che veramente colpisce in quel discorso di Bobbio è però l’angolazione da cui si guarda a queste vicende, andando oltre il livello di una polemica universitaria per investire la dimensione potremmo dire statuale dove esse hanno pienamente senso. In quell’intervento estemporaneo la cronaca veniva così riportata sul piano della storia: «Questa disponibilità verso l’apprendimento delle novità è andato a scapito […] del carattere nazionale della filosofia italiana. […] Con questo non voglio dire che sia spenta del tutto la convinzione che spetti al filosofo un impegno civile. Ma non è certo l’impegno volto all’educazione nazionale, se mai è un impegno che si volge verso il processo di ammodernamento della nostra società o anche verso lo scardinamento dello stato (ne abbiamo viste in questi anni di tutti i colori). No, il problema dell’educazione nazionale non è più un problema che interessi la filosofia italiana. Anche per una ragione più profonda, di cui parlo con l’animo perturbato e commosso, nonostante la mia vocazione illuministica e cosmopolitica: l’Italia non è più una nazione, nel senso che per lo meno nelle nuove generazioni non esiste più il sentimento nazionale, quello che una volta si diceva solennemente amor di patria».

Sarà tornato in mente a Bobbio, nell’usare queste parole desuete, Croce, appunto, quando nel momento più buio della storia italiana, nel giugno del 1943, richiamava all’idea di patria («la patria è un’idea morale» in quanto in «intimo legame con l’idea della libertà») contro l’ombra gettata sull’immagine stessa dell’Italia dal «cinico e stolido nazionalismo» che l’aveva buttata in un azzardo dissennato. Certo Bobbio è stato quello che, nel suo modo discreto e tenendosi fuori dalle dispute di scuola, con più continuità aveva mantenuto il sentimento della dimensione dell’opera di Croce. Quando gli inviai un altro dei capitoli futuri del mio libro, il saggio uscito sul «Giornale critico», mi giunse un suo biglietto con l’intestazione del Senato. Mi piace riprodurlo come un’altra testimonianza della levatura dell’uomo: «Egregio prof. Maggi, ho ricevuto i suoi ultimi studi crociani. Sono totalmente d’accordo con lei e con Croce: ho sempre avuto presente la parabola del ciabattino napoletano, anche se mi sono spesso trovato nei panni di chi predica bene e razzola male. Cordialmente. N. Bobbio» .

In verità, una statualità c’era stata in tutti questi anni, alla quale facevano riferimento o con la quale comunque si sono misurate molte identificazioni intellettuali. Era l’istanza statale impersonata da un partito fondato su una filosofia della storia il cui corso vittorioso aveva il testimone fattuale in una potenza mondiale. Certo, una statualità potenziale, alla cui esplicazione sul piano culturale non poteva corrispondere la diretta verifica di potere; mentre la statualità effettiva era gestita da forze che si guadagnavano il consenso prevalentemente su altri piani. Su ambedue i fronti, era però evidente una rottura con il mondo al quale sembrava confinata, insieme con la tradizione dell’Italia liberale, la stessa opera crociana. «Oggi – poteva dire Palmiro Togliatti recensendo nel 1955 le Cronache di filosofia italiana di Eugenio Garin –, a dieci anni da una restaurazione civile per cui combatté il popolo sotto la guida di uomini nuovi, non è certo dai seguaci della Critica e dello storicismo idealistico che l’Italia è diretta, ma in basso, nel popolo, dai marxisti, e in alto dai fedeli alla Civiltà cattolica e alle sue immobili dottrine».

Il «partito nuovo» era stato foggiato da Togliatti su un sapiente amalgama della mitologia indispensabile alla sua presa di massa (il comunismo internazionale di cui il cosiddetto campo socialista era forza garante e propulsiva) e di una tradizione intellettuale nazionale funzionalmente rimodellata. L’amalgama reggerà a lungo (anche se già la morte del fondatore, nel 1964, era avvenuta nel momento in cui la realtà del confronto tra i due imperi comunisti cominciava a mettere in crisi l’ancoraggio retorico dell’internazionalismo). Fino agli anni ottanta quell’amalgama resse, sia pure riadattato in modo da svincolarlo per quanto possibile dal mito di fondazione sempre più incerto. Quando del mito venne meno quella che era valsa come certificazione di realtà, tra il 1989 e il 1991, non poteva non cessare anche nel nome l’entità che su quella storia era nata (ma già nella morte dell’altro capo carismatico, Enrico Berlinguer, c’era come il segno che un’entità costitutivamente totalizzante non poteva risolversi senza dramma su un piano inferiore).

Andai a Roma a seguire i funerali di Berlinguer, il 13 giugno 1984, e in quell’omaggio corale sciolsi tacitamente il patto ormai da tempo diventato soltanto un legame di sentimento. Quanto quella funzione di supplenza statale con cui il partito si identificava fosse intesa tra gli intellettuali che si muovevano in quell’area culturale, e quali fossero le consonanze come le reazioni che quel genere di dominanza suscitava, è una storia tutta da ripensare. Certo, quel partito faceva valere la propria esclusività sul piano delle concezioni del mondo. In questo senso si imponeva, attraverso tutte le sue articolazioni istituzionali e di consenso, oltre che come un polo alternativo, anche come un potere autoritativo – ragione e ordine – che, soprattutto con Berlinguer, aveva teso a rappresentarsi come un presidio etico della democrazia. Quando la vicenda giunge a fine, anche gli elementi dell’ideologia si scompongono. Sul momento foscoliano prevale quello pascoliano. Peggio: l’abbandono di Machiavelli, la caduta della forza, lascia il campo libero al piagnonismo, nelle due versioni della rabbia antistatale e della retorica delle buone intenzioni.

5. Mi pare che la valenza civile e statuale del discorso filosofico sia entrata in crisi nel dibattito posteriore. Tanto che l’espressione «crisi della ragione» figurava nel titolo di un volume pubblicato da Einaudi nel 1979 a cura di Aldo Gargani, cui collaborarono, tra gli altri, Carlo Ginzburg, Salvatore Veca, Carlo Augusto Viano, Giulio Lepschy, Vittorio Strada. Nel 1983, Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti consegnavano a Feltrinelli la silloge sul pensiero debole. Che tipo di impatto hanno avuto questi libri nella cultura italiana di quegli anni?

Al di là della superficie, quale possiamo leggerla agevolmente nelle cronache dei nostri anni, vi sono movimenti sotterranei, che proprio una storia degli intellettuali e delle loro inclinazioni filosofiche aiuterebbe a rinvenire. Mi suggerisci di ripensare al volume che nel 1979 raccolse saggi di pensatori di vario orientamento sul tema della «crisi della ragione». Il volume, a riprenderlo in mano ora, si mostra davvero sintomatico. Certo, non potrei dirne per accenni. Ma se guardo il saggio che lo introduceva a dare il senso complessivo della ricerca in cui si incontrano le diverse voci trovo, insieme a percorsi teorici tecnicamente raffinati e suggestivi, l’emergere di tensioni dissolutive attivatesi negli anni sessanta e settanta, quando la crescita complessiva della società era sembrata attualizzare una prospettiva di rivoluzione globale: in una temperie culturale in cui il marxismo tornava come elemento essenziale, ma a sua volta svuotato in una indifferenziata ideologia decostruttiva a tutti i livelli di realtà.

Il partito comunista italiano era riuscito a reggere a un’offensiva culturale che si rivolgeva contro la sua stessa natura di forza storica, e ad assorbire e inglobare molti elementi antagonistici (in questo verificando anche la sua tenuta di potenza civile in una fase drammatica della vita nazionale). Ma come non avvertire un riferimento sottinteso a quella curia e a quel principe indebolito quando leggiamo, nell’introduzione del volume, la dichiarazione di liberazione da un mondo nel quale «era all’opera un modello di razionalità e di gerarchia concettuale che è associato all’immagine di un potere»? Il volume sarà discusso anche sulla stampa di partito, con conversazioni con alcuni intellettuali che comparvero sull’Unità. In quell’occasione intervenni anch’io nel maggio 1980 con un articolo dal titolo redazionale Qualche domanda sugli intellettuali. Credo sia stata l’unica volta che compaio con un mio scritto in quel giornale. Me n’ero dimenticato, e ho ritrovato il foglio ingiallito in uno scatolone in soffitta . Vedo che vi cercavo di allargare lo sguardo storico su questa «insicurezza categoriale», come dicevo, legando il suo ritornare nel presente alla crescita della comunicazione sociale che poneva in discussione il porsi degli intellettuali come ceto generale. Ma quella rete di certezze, quel tipo di difesa della ragione, quello scudo ideale, non erano più sufficienti. A questo punto Croce, per chi sappia leggerlo, anzi semplicemente per chi si decida a leggerlo, può essere davvero di aiuto.

6. Più di recente la tua interpretazione del pensiero di Croce si congiunge a una rinnovata riflessione sul pensiero di Gramsci. In La filosofia della rivoluzione (2008) e in Archetipi del Novecento (2011) ti sei soffermato sulla filosofia della praxis e sulla filosofia della realtà come alternative teoriche capaci di investire la dimensione etica e politica della vita. Ti chiederei di proporre una sintetica messa a punto della questione per coloro che non conoscono quei libri.

La lettura di Gramsci, soprattutto i Quaderni nei volumi ordinati per temi della prima edizione Einaudi e poi la rilettura, a un grado superiore di riflessione, nell’edizione critica del 1975, curata da Valentino Gerratana presso lo stesso editore, è stato un riferimento essenziale per me, come per tanti della mia generazione. Ora è in corso la grande impresa dell’Edizione nazionale, accompagnata da un intenso impegno filologico. Mentre la letteratura sull’argomento si è allargata a dimensioni mondiali. Non saprei però per quanti giovani oggi Gramsci operi come autore di formazione, e quanto la sua popolarità si riassuma in una icona da street art.

Certo, l’immissione dell’opera di Gramsci (per non dire la salvaguardia stessa del lascito documentario) nel circuito culturale nazionale si deve alla sapiente gestione di Palmiro Togliatti. L’effetto suscitato dalla pubblicazione delle lettere dal carcere e consolidato con la pubblicazione dei quaderni fu una leva indispensabile per dare al partito la sua specifica fisionomia, non estraniata dalla tradizione nazionale, per quanto reinterpretata. Il richiamo a Gramsci serve a vincere diffidenze all’interno, ma anche settarismi presenti nei nuovi entusiasmi marxisti. Togliatti, per intendersi, aveva a che fare con un gruppo dirigente tutt’altro che disponibile a scarti sulla via maestra della dottrina sovietica. Dove, per fare un esempio, un uomo di cultura come Emilio Sereni poteva accettare Gramsci solo associandolo a Zdanov; e teneva a precisare: «A scuola, Gramsci non è stato da Croce e dalla critica idealista bensì dalla classe operaia; alla scuola della sua esperienza e della sua pratica nazionale ed internazionale, elaborata nella critica materialista del marxismo-leninismo» (il dommatismo dell’intellettuale, una volta scattato, non dà scampo).

E bisogna dire che l’istituzionalizzazione di Gramsci in fondatore del partito e avallo ideale della sua linea fu gestita da Togliatti con determinazione ma anche con discrezione: fino all’ultimo articolo, intitolato «Gramsci, un uomo», dove si affaccia quasi uno scrupolo di ripensamento per la possibilità che la considerazione di partito avesse comportato una riduzione della figura di Gramsci, «oppure dato ad essa un rilievo non giusto, tale che non ne abbracci e spieghi tutti gli aspetti e la sostanza vera».

In ogni modo, per tutta un’epoca, alla funzionalità politica si lega la diffusione di Gramsci; e scelte politiche segneranno le diverse letture della sua opera, sia che si inscrivano nella linea prevalente nel partito, sia che la respingano in nome di un altro Gramsci, come quello operaista dei consigli, o ne contestino ascendenze e contaminazioni «idealistiche». È la letteratura amplissima su un «Gramsci conteso», come è stato definito: conteso certo e variamente interpretato, ma senza liberarlo dai paramenti del culto ideologico. Anzi, con il venir meno del suo portatore storico, quel culto si è allargato a un Gramsci sempre più evanescente, proiettato sui nuovi scenari mondiali dell’ideologismo antagonistico, rivendicazionismi subculturali, populismi, nativismi: lui, in cui la tematica dei gruppi sociali subalterni, e lo stesso interesse per il folclore, riportano sempre al progetto di unificazione del quale deve essere portatore il moderno principe, il partito che si fa Stato. Alla «fortuna» internazionale di Gramsci non sembra corrispondere una migliore comprensione del suo pensiero.

Il fatto è che quel pensiero è carico, negli stessi modi con cui di necessità si è espresso, di molteplici suggestioni, ma resta nel fondo impenetrabile per chi parta dalla tavola rasa di un marxismo destoricizzato e, se posso dire così, ormai deeuropeizzato. Esso ha infatti il suo impulso originario, che si proietta nell’intera opera, in un momento culmine della crescita dell’Europa, che precede (prepara?) l’implosione della grande guerra. La guerra apparirà la verifica storica di quella crisi filosofica dell’Europa della quale parlo in saggi raccolti nel volume dal titolo Machiavelli e il bisogno di Stato che ho pubblicato qualche anno fa nelle Edizioni di Storia e Letteratura. Una crisi che non si giuoca al livello delle formule e scuole istituzionali (anche se qui non ne mancano i debiti riscontri), ma affiora nei più diversi esperimenti espressivi. È come un vuoto di concezioni generali che la stessa guerra allarga su un piano di massa e al quale può corrispondere solo una disposizione filosofica integrale, incontenibile nelle paratie teoriche date.

Ma a questo livello Gramsci non poteva fin dall’inizio non incontrare Croce. Non un incontro da inserire nei debiti di filiazione (le variazioni sul tema – più Croce o più Gentile, e magari Sorel, e i liberisti – sono stucchevoli), ma un’altezza visuale con cui si sintonizza l’intera opera. Qui non posso far altro che rimandare al mio libro su Gramsci e la «filosofia della rivoluzione», come l’ho chiamata. In questa filosofia c’è tutta la differenza da Croce: filosofia della prassi contro filosofia della realtà, secondo le formulazioni che mi sono parse adatte a designare non due teorie o due dottrine, ma qualcosa nel profondo, che opera alle spalle di teorizzazioni e coscienze: «archetipi del novecento», appunto, secondo il titolo del libro che pubblicai da Bibliopolis nel 2011.

Ma c’è anche il livello al di sopra dei saperi corporativi al quale Croce aveva portato la considerazione filosofica, l’integralità del rapporto filosofia-vita (in Croce un dato da portare a continua consapevolezza, in Gramsci il finalismo di una prassi totalizzante). Senza tener conto di tutto ciò, suonerebbe come un’eresia, o almeno una bizzarria, il fatto che – permettimi di ricorrere a una pagina del mio volume del 2008 – «Gramsci guarda alla filosofia di Croce non come a un apporto filosofico tra gli altri, e tantomeno come a una vicenda culturale di portata limitatamente nazionale, ma come all’ultima forma della filosofia universale, quella che egli chiama “filosofia speculativa”, che precede e insieme fa da premessa alla rivoluzione filosofica di Marx-Lenin». E l’immagine di un Lenin filosofo (il famoso passo dei Quaderni secondo cui «la teorizzazione e la realizzazione dell’egemonia fatta da Ilici è stata anche un grande avvenimento ‘metafisico’») si presenta in parallelo con il discorso su Croce, e in confronto unicamente con la filosofia di Croce.

7. Stai ora lavorando a una nuova ricerca, ti va di raccontarci il bisogno da cui nasce?

Ciò da cui nasce, non so se un nuovo lavoro, ma certo la preoccupazione da cui è mossa la mia ricerca, l’ho espresso nel titolo della mia ultima raccolta di saggi. È la questione dello Stato, e quindi della classe dirigente in cui essa si rappresenta e risolve. Se si vuole, possiamo dire l’egemonia, togliendo al termine il suo sovraccarico ideologico, e usandolo non per guardare agli «anni ancor non nati» di cui «Daniel si ricordò», come nell’inno manzoniano, non al futuro profetico delle filosofie della prassi, ma alla gestione del presente. Un presente che resta oscuro e illeggibile senza la consapevolezza delle continuità e delle stesse fratture su cui sorge: della tradizione, insomma, che è il tutto di un accumulo di civiltà, non la rimemorazione di come eravamo, né lo spettro di un passato da scordare.

Devo dire che guardando al nostro presente (ma è un presente di qualche decennio) mi viene in mente, sempre per chiedere appoggio alla grande letteratura, una poesia di Eugenio Montale: «Forse un mattino andando in un’aria di vetro…». La sensazione, di fronte agli standard culturali recepiti – compresa una scuola depauperata di conoscenze effettive, tutta pedagogizzante e socializzante –, è di una coscienza storica indebolita, surrogata di volta in volta da ricostruzioni di maniera. Per intendersi, alle rotture più evidenti del novecento, innanzitutto quella che mise in discussione l’esistenza stessa dello Stato nazionale, e che fu risarcita grazie all’operosità degli individui e alla didascalica civile dei partiti – meno contando sui rendiconti degli intellettuali – si sono aggiunti altri passaggi critici: cesure della coscienza come passate nell’oblio.

Qualcuno dovrà decidersi una volta a fare una storia senza ideologie, ma che proprio per questo sia in grado di dar conto, senza recriminazioni e nascondimenti, della lunga stagione ideologica che ha segnato l’intellettuale italiano della seconda metà del novecento: fissando stilemi etici, divenuti disposizioni mentali obbliganti, ma di cui ora non si riconosce nemmeno l’origine. Cosa ne è stato dei vari marxismi, fino a un certo punto politicamente controllabili, poi confluiti nella corrente limacciosa della contestazione degli anni settanta e infine esauritisi, per chi è sopravvissuto indenne agli esiti tragici di quella stagione di astratti furori, nella pacificazione progressiva?

Sono state vicende intellettuali, torsioni della coscienza, che hanno bisogno più che mai della vera pacificazione, di una catarsi storiografica. In mancanza di questa, la sensazione è davvero di avere «il nulla alle spalle, il vuoto dietro». E che i tentativi di ricostruire continuità fittizie intorno a scuole e tribù intellettuali più o meno ammodernate (ritornano anche i marxismi, come se niente fosse) si risolvano in un giuoco di apparenze, nell’«inganno consueto».

Questo quanto più, proprio per la dimensione universale in cui ci moviamo, si avrebbe bisogno di attingere alle forze profonde della nostra storia e di queste sostanziare una cultura insieme dominatrice ed espansiva.

Caro Davide, non ho risposto alla tua domanda se non con altre domande, con interrogativi preoccupati, sì, ma non disperanti. L’importante, come sappiamo proprio dalla nostra tradizione, è lavorare sulle cose, ognuno dove può e come può. Piuttosto, ti sono grato di questa tua intervista, che è stata per me un’occasione di meditazione e di cui ho colto anche la sollecitazione amica.

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