Per avviare una discussione sulla rivoluzione digitale nelle humanities abbiamo rivolto alcune domande ai nostri consiglieri scientifici. Le loro risposte saranno pubblicate in otto uscite, da qui a metà ottobre. Ecco, come quinta uscita, Donald Sassoon e Luca Peretti.
Indice delle uscite:
I) Agnese Accattoli e Davide Bondì.
II) Peter Burke ed Elisabetta Benigni.
III) Marco Filoni ed Erminia Irace.
IV) Lutz Klinkhammer e Matteo Melchiorre.
IX
Donald Sassoon
A quale generazione senti di appartenere?
Quella dell’immediato dopoguerra. Quella che gli inglesi chiamano i ‘baby boomer’. In occidente la generazione più fortunata della storia.
Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?
È cominciata più di 30 anni fa quando all’università, a Londra, avevamo le email (che non c’erano ancora al World Service della BBC!)
È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)
Scrivo con il computer da almeno trentacinque anni. Non scrivo quasi nulla a mano. Non ho archivi di carta. Tutte le mie note e appunti sono digitali. Certo vado (andavo prima dell’attuale pandemia) in biblioteca perché la maggior parte dei documenti e libri dei quali ho bisogno non sono on line.
Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?
Un enorme progresso senza il quale oggi la situazione sarebbe ancora peggiore.
Donald Sassoon, Emeritus Professor della Queen Mary University, Londra. Partito dallo studio della storia politica, soprattutto della sinistra, produce lavori imponenti tanto sulla storia culturale europea, quanto su quella economica, secondo una prospettiva comparata e globale. Svolge un’influente mediazione culturale tra Gran Bretagna e Italia. «Culture is the original world wide web», ha scritto nella conclusione di The culture of the Europeans (2006), dove è descritta brillantemente la rivoluzione digitale.
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Luca Peretti
A quale generazione senti di appartenere?
Sono nato a metà anni ottanta, direi ancora millenials (secondo le categorie di oggi), ma c’è sicuramente un salto notevole tra me e chi è nato a inizio anni novanta – e cioè è tendenzialmente cresciuta/o con computer in casa o a scuola, era troppo piccola/o per Genova e l’11 settembre, il novecento è davvero solo un ricordo. Io sono cresciuto con tanti luoghi e modi ancora simili a quelli della generazione dei miei genitori.
Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?
A inizio anni Duemila, con l’arrivo di internet in casa, il primo cellulare, e una timidissima informatizzazione anche a scuola.
È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? usi archivi di carta che tieni in ordine? vai abitualmente a leggere in biblioteca?)
Certo! Prendo ancora molti appunti a mano, diciamo faccio interagire le due dimensioni, per le cose più estemporanee (appunti da film o libri o in archivio) scrivo in generale a penna, e poi al massimo ricopio al computer cose che voglio che in qualche modo rimangano o soprattutto che posso ritrovare facilmente. Uso però quadernini (che tengo in dis-ordine) e stampo praticamente tutti i paper che leggo. Vado in biblioteca molto spesso, e anche il mio ufficio ha tantissima carta, libri ma anche appunti, cose stampate etc. Quando imposto un lavoro, classe da insegnare articolo libro che sia, in genere parto da una mappa concettuale su un grande foglio di carta.
Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?
Sono molto interessato all’organizzazione del lavoro “digitale”, ogni epoca mi pare ci presenti nuove tecnologie con cui lavorare (la stampa, la macchina da scrivere, etc) e la nostra ha forse accelerato i cambiamenti. Forse però la velocità è l’aspetto meno interessante, lo è di più inserire questi cambiamenti in una prospettiva di lunga durata, provando a coglierne gli snodi fondamentali.
Del resto, abbiamo a che fare con strumenti digitali da decine di anni ormai. Non credo ci sia infatti un nuovo modo di lavorare, al singolare e in contrapposizione a un vecchio entrambi in qualche modo omogenei, quanto tantissimi modi diversi frutto di approcci molteplici. Penso si debba evitare il rischio quindi di mancare sviluppi di lunga durata, insistendo noi nella creazione di nuovi e vecchi (quindi magari facendo uscire noi quei mostri, secondo la famosa citazione gramsciana) invece che cercare di capire gli sviluppi dei media in una prospettiva di più ampio sguardo.
Una possibile ricerca potrebbe quindi occuparsi di definire prima di tutto cosa intendiamo per digitale e da quando comincia; provare poi a fare delle liste di cosa rende davvero nuovi questi strumenti di lavoro; infine, individuare alcuni momenti di passaggio e alcune importanti invenzioni tecnologiche (incluse, quelle che vennero abbandonate) e capire quanto i contemporanei le sentivano nuove e rivoluzionarie.
Luca Peretti lavora in un ambito di frontiera tra storia della cultura italiana, comunicazione visiva e Film studies.