La rivoluzione digitale nelle humanities vista da molto vicino

Per avviare una discussione sulla rivoluzione digitale nelle humanities abbiamo rivolto alcune domande ai nostri consiglieri scientifici. Le loro risposte saranno pubblicate in otto uscite, da qui a metà ottobre. Ecco, come prima uscita, quelle di Agnese Accattoli e di Davide Bondì.

I

Agnese Accattoli

A quale generazione senti di appartenere?

Immaginando che la domanda sottintenda un riferimento alla cosiddetta “generazione digitale”, io non mi sento pienamente parte di quella generazione, che in linea di massima identifico come la generazione dei nati a partire dalla fine degli anni Ottanta in poi. Però non ci rientro per poco, essendo nata a metà dei Settanta. Mi sento parte della generazione che ha vissuto a cavallo del prima e del dopo: io e i miei coetanei, molto giovani, ma già adulti, abbiamo metabolizzato rapidamente tutte le fasi del passaggio dall’analogico al digitale. I nostri genitori hanno vissuto la maggior parte della loro vita in un mondo completamente analogico, i nostri figli sono nati in un mondo già digitale. La mia generazione ha avuto il ruolo di anello di congiunzione in questa svolta evolutiva: in un certo senso, siamo i rappresentanti viventi di una mutazione antropologica della nostra specie.

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

È avvenuta all’incirca con la redazione della tesi di laurea. I testi di riferimento erano ancora tutti cartacei, ma la ricerca delle fonti avveniva già in parte con l’ausilio di Internet. Nello stesso periodo ho cominciato a usare sistematicamente la posta elettronica.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? Usi archivi di carta che tieni in ordine? Vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

È presente in parte: spesso scrivo ancora appunti a mano; ho un archivio cartaceo un po’ datato, che faccio sempre più fatica a usare con efficienza; vado molto spesso in biblioteca perché la maggior parte dei testi non è ancora disponibile in formato digitale; frequento gli archivi per lo stesso motivo, perché le collezioni dei documenti sono ancora perlopiù disponibili solo in formato cartaceo.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Penso che la trasformazione (o rivoluzione) digitale del lavoro scientifico-culturale sia ancora in una fase iniziale, e che ci attendano scenari ancora poco prevedibili. Non solo l’organizzazione digitale deve essere ancora molto perfezionata a livello quantitativo, ma probabilmente deve ancora definirsi dal punto di vista qualitativo: trovare la propria struttura, il proprio metodo, la propria natura. Per il momento, il digitale aggiunge molto all’impostazione scientifica “tradizionale”, perché rappresenta un’amplificazione straordinaria delle risorse e una più immediata accessibilità alle fonti, ma presenta anche qualche controindicazione, perché l’estensione delle prospettive ruba spazio e tempo alla profondità della ricerca. Ciò che viene messo in crisi, credo, nel nuovo “modo” di lavorare, è proprio il concetto di “tradizione”, che prevede una trasmissione del sapere lineare, anche se ramificata; mentre adesso sembra imporsi una modalità di ricerca orizzontale, a raggera, in un contesto di saperi esplosi, senza ordine e senza gerarchie.

In effetti non penso si possa ancora parlare di una vera e propria organizzazione digitale del lavoro scientifico-culturale, ma piuttosto di una ricchissima e spaventosa “confusione” entro cui il lavoro scientifico-culturale ha trovato uno strumento potente e nuove opportunità, ma sta ancora cercando una nuova identità.

Agnese Accattoli, slavista dell’Università Roma Tre, traduttrice, storica e biografa, studia le relazioni culturali e politiche tra Russia e Italia, soprattutto nel Novecento.

II

Davide Bondì

A quale generazione senti di appartenere?

A una generazione di mezzo, cresciuta con gli strumenti tradizionali dello studio e del lavoro e catapultata nel giro di un decennio (1990-2000) in mondo nuovo. La mia generazione ha vissuto la transizione al mondo digitale, e ha dovuto commisurare le strategie di formazione precedenti con le nuove. Si è trattato di una graduale trasformazione nel modo di pensare, di orientarsi negli studi, di acquisire ed elaborare le informazioni. Ho però la sensazione che la transizione abbia preso forma in me nel senso di un innesto più che di un vero e proprio ribaltamento, perché sento alcune forme del passato come ancora vive e strutturanti il mio modo di comportarmi, agire, lavorare.  

Come e quando è avvenuta – nella tua esperienza personale – la rivoluzione digitale?

Come dicevo, all’inizio degli anni novanta, mentre frequentavo l’università. Nel 1998, ho ad esempio scritto la tesi di laurea al computer ed era la prima volta che lo utilizzavo per ragioni di studio o di ricerca. Precedentemente lo usavo nel tempo libero per giocare benché, per quel che ricordo, non avessi un accesso a internet, né un indirizzo di posta elettronica. Direi che il vero salto nel mondo nuovo è avvenuto appunto con la connessione. Allora il computer non era più una “macchina da scrivere senza carta” e con un sistema più agevole di correzione, ma uno strumento in grado di far cose nuove. Da quel momento è stato un processo incalzante e pervasivo, capace di penetrare in diverse dimensioni dell’esperienza e integrarle tra loro (i rapporti personali, il lavoro, la distrazione, il divertimento, il tempo libero, i viaggi, i contatti).  Forse solo nell’ambito strettamente professionale, che nel caso mio sono gli studi, permangono tecniche strategie e comportamenti del passato.

È ancora presente nella tua vita il “vecchio” modo di lavorare? (per esempio: scrivi a mano? Usi archivi di carta che tieni in ordine? Vai abitualmente a leggere in biblioteca?)

Sì, scrivo a mano quando prendo appunti dai libri per fissare le idee in modo immediato o per frammenti. I dati trascritti e rielaborati a mano costituiscono spesso l’intelaiatura e l’abbrivio del lavoro successivo. Invero, uso soprattutto fotografare documenti dagli archivi cartacei che poi utilizzo dal computer. In biblioteca vado abitualmente, perché non tutti i documenti o i libri che leggo sono digitalizzati. Peraltro, i libri in versione digitale sono per me soprattutto fonte di consultazione, mentre per uno studio approfondito utilizzo libri cartacei. La lettura su cartaceo ha ritmi più lenti, consente un maggiore approfondimento, crea una memoria visiva, consente di ritornare molte volte sugli argomenti. Articoli o saggi brevi possono essere invece studiati anche in versione digitale, benché spesso io preferisca stamparli.

Cosa pensi dell’organizzazione “digitale” del lavoro scientifico-culturale? In che misura definiresti nuovo il modo di lavorare attuale?

Il materiale digitale (banche dati, testi, enciclopedie) accresce notevolmente le possibilità di informazione e di consultazione, consente di orientarsi in una bibliografia sovranazionale e di accedere velocemente a fonti prima irreperibili perché conservate in biblioteche difficili da raggiungere o di difficile accesso. Consente anche di mettere in rapporto con facilità fonti molteplici (testimonianze orali, film, musica, materiali tratti da musei, da memoriali) e di integrare immediatamente dati disparati. Permette la costruzione di un archivio personale più vasto di quelli assemblati con metodi tradizionali. Rende agevole la creazione di reti istituzionali di studiosi operanti in diverse parti del mondo e la progettazione di cooperazioni internazionali. Il digitale, tuttavia, rende anche maggiormente dispersiva la ricerca, spesso richiede uno sforzo di selezione maggiore e può essere a volte fonte di distrazione. Io uso strategie alterne: in genere, il momento dell’ideazione è legato al vecchio modo di lavorare (lettura di libri e fonti cartacee, scrittura a mano), il momento dell’acquisizione delle informazioni, del loro ordinamento e della stesura delle ricerche, del confronto con altri studiosi in merito ai risultati conseguiti avviene invece attraverso l’utilizzazione dei dispositivi digitali.

Davide Bondì, storico della filosofia e germanista, lavora sui problemi della teoria della storia, sulla storia della cultura italiana e tedesca tra Otto e Novecento, sulla sorveglianza degli intellettuali.

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