Con un editoriale apparso nel numero pubblicato lo scorso dicembre, la rivista “tradurre” ha annunciato la sua chiusura. Abbiamo intervistato l’ex direttore Gianfranco Petrillo per comprendere meglio come è maturata questa decisione.
Direttore Petrillo, nell’editoriale del numero 0 di “tradurre” (primavera 2011), si legge che l’intento della rivista era quello di “rendere dignità culturale al mestiere del tradurre, svelandone, in tutti i suoi risvolti, la complessità e la ricchezza, la profondità e l’inventiva, la durezza e la leggerezza”. Si faceva quindi appello a un Lettore con la l maiuscola, nascosto dietro il Mercato anch’esso con l’iniziale maiuscola, affinché persuadesse l’editoria a tornare ad avere anch’essa dignità culturale. In questo decennio di pubblicazioni, come si è evoluto il rapporto tra i cateti (Lettore, Mercato ed editoria) di questo triangolo? Quale direzione ha cercato di seguire la rivista?
[Gianfranco Petrillo] In un decennio molte cose sono cambiate. Il timore, nutrito allora, che l’ebook sostituisse il cartaceo non aveva molto senso: sempre di libri si trattava, che fossero su papiro o su pergamena, su carta o su display; e per di più non si è ancora materializzato. Si è definitivamente concretizzata invece una tendenza in atto già da decenni, ossia la sostituzione della trasmissione e della circolazione del sapere tramite il libro e la rivista col web e coi social media.
Per il suo formato “tradurre”, “rivista cartacea che fa finta di essere digitale”, era già demodé alla nascita: negli ultimi anni era diventata addirittura antidiluviana, ossia precedente al diluvio di tweet e fake news e voci incontrollate di Wikipedia (benché in quest’ultimo ambito i progressi siano indubitabili, ancorché insufficienti).
Il Mercato e l’Editoria fanno fatica ad aggiornarsi e il Lettore a orientarsi. Il Mercato, poi, si guarda bene dal lasciar passare un concetto su cui “tradurre” ha molto insistito: la traduzione è un testo diverso e autonomo rispetto all’originale, che non solo va valutato per sé e non come riflesso perfetto dell’originale, ma che a sua volta crea ricadute proprie nella cultura d’arrivo.
Devo precisare che già da un paio di anni prima della cessazione della rivista, non ne ero più io il direttore, ma Aurelia Martelli. Ma non ritengo – né lo ritiene Aurelia, ne sono certo – appropriazione indebita rispondere io a queste domande.
Scorrendo la sezione del sito con l’etichetta “redazione”, è possibile rintracciare per ogni numero pubblicato un gruppo storico e una schiera variabile di collaboratori. Ci può tracciare un breve profilo di quelli che hanno appartenuto alla cerchia più ristretta?
[GP] Effettivamente nella redazione sono distinguibili due gruppi: quello dei “fondatori” e quello dei “giovani”. I fondatori, nel 2010, sono stati Giulia Baselica, Susanna Basso, Paola Brusasco, Ilide Carmignani, Enrico Ganni, Mario Marchetti, Aurelia Martelli, Paola Mazzarelli, Maria Nicola e il sottoscritto. Purtroppo Ilide e Maria si sono defilate subito e il compianto Enrico dopo un paio di numeri, ma intanto abbiamo cooptato Anna Battaglia e Ada Vigliani, considerate a tutti gli effetti cofondatrici.
Come si vede, si tratta in prevalenza di traduttori, qualcuno – come Giulia, Aurelia, Paola Brusasco e Anna – con un piede nell’università, qualcun altro, come Enrico, con tutti e due nell’editoria. Mario, oltre a essere un superbo traduttore di saggistica, è il presidente del Premio Calvino per narratori esordienti. Io, storico con qualche pessima prova giovanile di traduzione, ero una mosca bianca. Abbiamo subito allargato il gruppo ad alcuni tra i migliori ex allievi della Scuola per traduttori editoriali dell’Agenzia formativa tuttoEuropa di Torino, con un duplice intento: quello di dialogare coi giovani e quello di avere collaborazione nel faticoso lavoro, volontario e non retribuito, di confezionamento della rivista, al quale il gruppo dei fondatori, eccetto me, non aveva il tempo di dedicarsi.
Da questa collaborazione sono nati l’utilissimo blog “blocnotes”, presente nel sito, e la rubrica “Quinte di copertina”, ma la rivista nel suo complesso è rimasta di fatto responsabilità dei “vecchi”. Le riunioni mensili plenarie sono state comunque sempre una ricchissima miniera di suggerimenti, indicazioni e proficue (e spesso divertenti) discussioni. Un inserimento significativo a sé stante è stato quello, da lui stesso desiderato, di Bruno Maida, storico senza alcuna esperienza di traduzione, che è venuto a rafforzare l’asse culturale intorno al quale ha ruotato tutta l’esperienza di “tradurre”.
Gli impegni varianti di ciascuno hanno poi portato a successivi allontanamenti e sostituzioni e nuove aggregazioni. Particolarmente importante è stata la confluenza del gruppo di ricerca di Letteratura tradotta in Italia (Ltit) coordinato da Michele Sisto, Anna Baldini e Daria Biagi, che ha alimentato un’apposita rubrica di medaglioni biografici.
Nell’editoriale che ha annunciato la fine delle pubblicazioni, si afferma che (forse) non è più tempo di una rivista così: “un semestrale dall’anima cartacea, ma pubblicato online. Fatto di corpose e imponenti bibliografie, di articoli redatti con una meticolosa attenzione ai dettagli e supportati da un lavoro di fact-checking ‘estremo’”. Se quest’anima si fosse fatta anche corpo, il dibattito sui temi proposti avrebbe avuto un peso maggiore?
[GP] No. L’unica differenza sarebbe stata costituita dai maggiori costi, dalla maggior fatica e dalla minore diffusione. Io altrimenti avrei preferito stampare volentieri la rivista così come è uscita in ogni numero. Ma forse devo correggermi. Ci sarebbe forse stata anche un’altra differenza: una maggiore attenzione da parte del mondo accademico al senso complessivo dell’operazione, a dimostrazione del ritardo in cui indugia la maggior parte di quel mondo (non tutto).
Nello stesso editoriale, si sostiene che non è stato possibile instaurare un dialogo vero con il mondo accademico. In particolare, non si è riusciti a superare la separazione fra modo “accademico” e “non accademico” di parlare di traduzione. Perché esiste questa separazione e quali sono le resistenze che non permettono di superarla?
[GP] Il mondo accademico delle scienze umane è chiuso in se stesso e autoreferenziale. La riforma universitaria in senso professionalizzante è stata interpretata come supina accettazione del mondo circostante esistente, in cui non sarebbe né possibile né tanto meno auspicabile apportare modifiche. Per quanto riguarda il nostro campo, sono stati introdotti insegnamenti specificamente rivolti alla traduzione facendo di ogni erba un fascio, come se tradurre un bugiardino farmaceutico e tradurre un sonetto di Shakespeare comportassero gli stessi problemi. In particolare, non viene indicata alcuna distinzione fra traduzione “specialistica”, ossia tecnico-scientifica per l’accademia e l’industria e il commercio, e traduzione “editoriale”, ossia letteraria e di saggistica, per cui il/la docente che coltiva lo studio di Rabelais ne propone il testo a ragazzi che aspirano a lavorare per l’industria turistico-alberghiera, assolutamente ignoranti di letteratura francese, in particolar modo precedente agli ultimi trenta o quarant’anni, che in quella sede non viene insegnata, rinchiudendola invece nel recinto degli specialismi letterari. E’ poi diffusa tra i docenti la convinzione che la teoria della traduzione sia propedeutica alla formazione dei traduttori, confondendo problemi filosofici (ma forse sarebbe meglio dire politico-ideologici) con problemi di cultura generale da un lato e di bottega professionale dall’altro.
In questo ambito la proposta della rivista “tradurre” di pensare alla traduzione editoriale come campo di incontro e di crescita fra culture diverse, rivolto alla maturazione della consapevolezza di sé e del mondo e della profondità e complessità dei problemi che esso pone, e in cui operano intellettuali di grande valore, sembra per ora caduta senza sollevare la minima attenzione: ma il seme è gettato e qualcosa nascerà. Abbiamo avuto collaborazioni preziose da numerosi e valorosi docenti in diverse e utili direzioni, ai quali non cesso di rivolgere un pensiero di gratitudine, ma come ciascuna a sé stante, mentre non si è aperto alcun dibattito, non si è suscitato alcun interrogativo circa il ruolo centrale della traduzione nella formazione degli individui e nello sviluppo della società. Tutto quello che abbiamo ottenuto, per esempio, con l’ampio numero monografico, il 15, dedicato a “insegnare/imparare a tradurre”, è stata l’impennata di una ricercatrice che, benché innominata, si è sentita rappresentata in modo offensivo nella testimonianza di un allievo e ci ha tempestati di superflue e ridicole raccomandate inviate per conoscenza perfino al rettore e al rappresentante legale dell’università.
“tradurre” veniva certamente letto anche in ambito accademico, ma ciascuno vi cercava ciò che poteva far crescere nel proprio orticello. Il che significa l’abbandono totale del senso dello studio umanistico, ridotto a somma di specialismi come qualunque altro. Fine a se stesso e alla propria riproduzione, ciascuno specialismo umanistico è sterile e inutile. E fanno allora bene i governi a tagliare i finanziamenti alla cultura che non siano destinati a “beni” (il termine ben rappresenta l’oggetto) che abbiano ricadute economiche “sul territorio”. Presto si scoprirà che tali insegnamenti che si autoriproducono sono inutili e verranno tagliati anch’essi.
Ma voglio aggiungere: peggio ancora si è comportato, ai nostri occhi, il mondo editoriale e dei mass media. Il nostro sforzo per far riconoscere il ruolo culturale complessivo della traduzione e quindi dei traduttori, sia letterari che di saggistica, in questa direzione è stato del tutto vano: c’è stato in questo decennio una crescita del battage pubblicitario intorno a certe traduzioni e a certi traduttori in base più al valore dei testi originali che alla funzione complessiva dell’operazione traduttiva. Recensire un romanzo straniero in traduzione parlando del suo valore letterario assoluto è una vera e propria scorrettezza: quello che si ha sotto gli occhi è un testo autonomo, che ha valori e disvalori propri, dei quali uno è l’adeguamento letterario (non meramente linguistico!) al testo originale, che andrebbe considerato tenendo conto dei condizionamenti imposti dalla filiera editoriale. Ciò vale quasi ancora di più per la saggistica, i traduttori della quale non godono – se non in casi eccezionalissimi, e per lo più negativi – nemmeno del minimo rispetto per il loro nome. Tanto meno ci si sofferma sul significato che tali traduzioni hanno per la nostra cultura, in quanto traduzioni. A prescindere dalla nomea che questo o quel traduttore è riuscito a farsi, non ci si interroga mai sulla provenienza, formazione e produzione complessiva dei traduttori così come per solito si fa per gli altri autori.
Se però c’è stato questo esito parzialmente negativo su entrambi i fronti, evidentemente erano sbagliate le nostre premesse. Io tuttavia non sono in grado di capire dove era l’errore.
Quali sono, a suo avviso, i numeri che hanno espresso nella maniera più accurata i temi proposti da “tradurre”?
[GP] Direi che ogni numero è riuscito sufficientemente a perseguire i nostri intenti. Vanno segnalati i numeri monografici (sulla traduzione di teatro, su quella di poesia, sulla didattica e sulle traduzioni di storia) che indicavano ciascuno una strada da percorrere e che, avessimo avuto le forze per proseguire, si sarebbero potuti moltiplicare.
L’argomento della traducibilità in Gramsci lo troviamo anche in questa recensione del libro Gramsci, Language and Translation, firmata da Mauro Pala e pubblicata nel primo numero della rivista (autunno 2011). In una lettera dal carcere indirizzata nel 1932 alla moglie Giulia, Gramsci le consiglia di diventare una traduttrice dall’italiano sempre più qualificata. Descrive poi il profilo ideale di questa figura: “[…] non solo la capacità elementare e primitiva di tradurre qualsiasi autore, sia letterato, o politico, storico o filosofo, dalle origini ad oggi, e quindi l’apprendimento dei linguaggi specializzati e scientifici e dei significati delle parole tecniche secondo i diversi tempi. E ancora non basta: un traduttore qualificato dovrebbe essere in grado non solo di tradurre letteralmente, ma di tradurre i termini, anche concettuali, di una determinata cultura nazionale nei termini di un’altra cultura nazionale, cioè un tale traduttore dovrebbe conoscere criticamente due civiltà ed essere in grado di far conoscere l’una all’altra servendosi del linguaggio storicamente determinato di quella civiltà alla quale fornisce il materiale d’informazione […]” Questo piccolo manifesto della traduzione qualificata può essere ancora considerato attuale?
[GP] Nei fatti, come li ho sommariamente descritti sopra, quel “manifesto” gramsciano sembra del tutto inattuale. Nonostante tutto il can can circa gli “scontri”, o pseudo scontri, “di civiltà”; nonostante l’impellenza della circolazione delle conoscenze a livello mondiale in epoca di globalizzazione; non è certamente “conoscere criticamente due civiltà ed essere in grado di far conoscere l’una all’altra servendosi del linguaggio storicamente determinato di quella civiltà alla quale fornisce il materiale d’informazione” ciò che oggi ci si aspetta da un traduttore. Ma tornerà attuale perché Gramsci, tra le quattro mura di una cella, aveva la vista lunga e la necessità di quella consapevolezza si imporrà.
Almeno, questa è la mia speranza: quella che per una decina d’anni mi ha fatto sobbarcare al compito di dirigere e poi di collaborare a dirigere l’esile e fragile, ma risoluta, barchetta di “tradurre”.